Il manifesto di Ventotene ottant’anni dopo

Ottant’anni fa, nell’isolamento di Ventotene dove erano stati confinati, due fervidi antifascisti, Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, coadiuvati da un terzo destinato a morte precoce per mano fascista, Eugenio Colorni con la sua audace consorte, la vivacissima ebrea berlinese Ursula Hirschmann, stesero il Manifesto per un’Europa libera e unita. Fu il primo tassello di un mosaico che i nostri ritennero si sarebbe composto rapidamente, dopo l’inevitabile sconfitta del fascismo in Europa. È un manifesto lungo e complesso che sviluppa un’acuta analisi dei mali del tempo, che individua nella degenerazione dello stato nazionale la causa della tragedia d’Europa e che indica nella costruzione di una Federazione europea la fuoriuscita dal baratro in cui era caduto il vecchio continente.

I quattro erano dei visionari capaci di coniugare coraggio, intelligenza e lungimiranza. Non si limitavano a credere e a battersi per la riconquistata libertà, ma andavano ben oltre, progettando una nuova Europa incapace di ricadere nei mali antichi del nazionalismo e della guerra. Questo era il compito del Movimento federalista che fondarono nel 1943 e che ebbe nel Manifesto del 1941 la sua magna carta fondante.

Possiamo dire con orgoglio che, grazie a questi quattro indomiti, il disegno di un’Europa unita è stato concepito e lanciato dall’Italia oltre le Alpi. È divenuto un patrimonio comune di tutti i cittadini del vecchio continente. I quattro avevano ben chiaro che il fine da raggiungere era prettamente politico, abbattere lo stato nazionale. E a ragione dichiarano che, per paradosso, “il rullo compressore tedesco [aveva] accomunato la sorte dei popoli europei […] [e] con la caduta di questo […] gli spiriti saranno molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell’Europa”. Erano degli ottimisti, ma anche realisti. Erano consapevoli che la frattura profonda della guerra avesse liberato energie prima inimmaginabili. Doveva, quindi, essere sfruttato prontamente l’irriproducibile abbrivo del momento storico.

Come accade spesso nella storia, per non dire quasi sempre, a quella visione coraggiosa e alla tenacia di questi straordinari combattenti per la libertà non sono corrisposte realizzazioni di pari portata ed efficacia. Lo slancio tutto politico e ideale verso la Federazione europea si è esaurito in meno di dieci anni dopo la fine della guerra. La crisi del disegno politico dei nostri magnifici quattro arrivò col fallimento del progetto del primo ministro francese René Pleven, noto come Comunità europea di difesa. Era un progetto ardito che nel momento più aspro della guerra fredda, quando era in atto la guerra di Corea, puntava alla costituzione di una difesa integrata dei paesi aderenti alla testé costituita Comunità europea del carbone e dell’acciaio. L’Italia di De Gasperi vi aderì su consiglio di Altiero Spinelli, uno dei quattro che abbiamo visto, sulla base della fondamentale intuizione che non avrebbe potuto nascere e operare un esercito europeo senza una guida politica unitaria. La Comunità europea di difesa, varata nel 1952, fu quindi legata alla grande speranza di fare quel salto decisivo di qualità verso la Federazione europea sognata negli anni della guerra.

Fu un’illusione. Le resistenze politiche al progetto furono fortissime. L’opinione pubblica francese guardava con sconcerto il riarmo della Germania, senza percepire a fondo che esso sarebbe avvenuto nel contesto di un esercito europeo e quindi i rischi correlati sarebbero stati disattivati. Ma le avversioni al fatto in sé erano ancora troppo forti. Poi la Francia era irremovibile nella caparbia e anti storica volontà di tenuta dell’impero coloniale. Era in atto la guerra di Indocina che a Diên Biên Phu segnò una drammatica sconfitta francese nel maggio 1954, destinata a espellere la Francia da quell’area e a riacutizzare la questione algerina. Perdere il controllo della politica militare per farlo rifluire in un organo politico di responsabilità europeo era una cessione di sovranità assai gravosa e contrastata, in quel momento storico. L’Assemblea francese bocciò il progetto in agosto. Tutti gli altri paesi firmatari, Italia compresa, avevano aspettato le decisioni del Parlamento francese prima di portare a ratifica il Trattato, ben conoscendo le resistenze che avrebbe incontrato.

Così fallì il grande salto verso la Federazione europea ovvero la Comunità politica europea, come era stata chiamata la creatura mai nata. Tre anni dopo, a seguito della conferenza di Messina che vide di nuovo protagonista l’Italia e in particolare il nostro ministro degli Esteri Gaetano Martino, furono firmati i Trattati di Roma. Nasceva la Comunità economica europea. Quell’aggettivo “economica” al posto di “politica” la dice lunga sul cambio di prospettiva. Dall’idea di Federazione a quella del libero mercato ce ne corre. Prevalsero le tesi funzionaliste nella speranza che, come nella biologia evoluzionistica, potessero determinare le sorti dell’Europa: creo la funzione (libero mercato) così sarà questa a creare l’organo (il governo integrato dell’economia). Non fu proprio così. Il libero mercato garantì la crescita e il boom economico, ma fare il salto di qualità richiedeva la volontà politica. Politique d’abord avrebbe detto De Gaulle che dell’integrazione europea fu irriducibile avversario.

Così siamo andati avanti per passi successivi, tutti piegati alle esigenze di integrazione economica e monetaria che le più consapevoli elites economiche europee chiedevano, lasciando negletta la questione politica. Col risultato che la ricca Europa è ancor oggi un nano politico. In politica estera siamo irrilevanti o quasi. Non disponiamo di una forza armata europea. E anche sul terreno della ricerca scientifica, che pure è da tempo materia di precipuo interesse e fiore all’occhiello della Commissione europea, abbiamo dimostrato tutta la nostra debolezza sul fronte dei vaccini.

Consoliamoci. Gli Stati Uniti d’America, dopo la proclamazione dell’Indipendenza del 4 luglio 1776, sono stati dilaniati da spinte regionalistiche e territoriali, anche fomentate dall’Inghilterra, che minacciarono la costituzione federale fino all’esplosione della guerra di secessione. La stabilizzazione della Federazione americana è arrivata solo nel 1865, con la fine della guerra civile e la vittoria della Federazione del nord. Erano passati novant’anni dall’Indipendenza e, nel frattempo, il melting pot della frontiera aveva silenziosamente lavorato per l’amalgama nazionale.

Per noi, l’impresa è assai più ardua. Ma fidiamoci di quei quattro sognatori di Ventotene di ottant’anni fa. Come i profeti del nostro Risorgimento hanno visto lungo. E il tempo, dicevano gli antichi, è galantuomo.

Lascia un commento