A proposito di ripartenza. I cinque punti che mancano (da tempo) in agenda

L’Italia uscirà dalla crisi profonda in cui è caduta? Ci sono le previsioni facili e quelle difficili. Quella facile è che dal momento che una perdita percentuale di pil così forte su base annua – sia essa del 9, del 10 o del 12% – non si è mai verificata nella storia del dopoguerra, il rimbalzo, quello che in termini borsistici viene rappresentato con la classica V, è inevitabile. Il passaggio dal tendenziale azzeramento delle attività produttive alla loro riattivazione segna una ripresa inevitabile del prodotto lordo. Di quanto? Difficile a dirsi, anche perché conta la variabile della liquidazione definitiva della pandemia e dei suoi effetti comportamentali e relativa tempistica. Di sicuro, comunque, di una misura largamente inferiore al terreno perso, almeno nel 2021. Dobbiamo prevedere un rimbalzo del 4 o del 5 o del 6%? Ben venga, naturalmente. Ma questo vorrebbe dire che su base biennale, quando l’effetto V si sarà esaurito, l’Italia avrà perso molti punti di ricchezza nazionale. Questa è la previsione certa, a breve. Poi c’è la previsione difficile, quella di medio periodo, diciamo su base tre/cinque anni. Qui la classica V borsistica non aiuta più ed entrano in campo altri, complessi e variegati fattori strutturali.

Non voglio entrare nel merito delle componenti e degli stimoli economici allo sviluppo. Questo esula dalle mie competenze. Così come non entro negli aspetti del deterioramento del tessuto sociale come effetto della pandemia e delle politiche adottate per fronteggiarla. Questo è tema prettamente sociologico. Faccio il mestiere dello storico e provo quindi ad applicare al tema una prospettiva di lungo periodo, tenendo ferma la consapevolezza che quanto accaduto ieri non si ripropone mai nella storia in modo conforme. Ma avendo anche ben chiaro che il profilo storico di un paese ha caratteri di radice profonda che interagiscono con le nuove sfide del presente e le condizionano negli esiti.

Allarghiamo, quindi, la prospettiva di analisi in chiave retrospettiva. Da questa traiamo, quindi, qualche considerazione prospettica.

La prima è che l’Italia del 2019 non aveva ancora del tutto recuperato i livelli di produzione di ricchezza precedenti la crisi della finanza mondiale esplosa nel 2008 e che aveva avuto il suo evento paradigmatico nel fallimento Lehman Brothers. Anche questo è un unicum fra i paesi industrializzati e anche fra i soli paesi europei. Nessun governo di destra o di sinistra – e ne abbiamo avuti di ogni colore e sfumatura – in più di un decennio si è posto il problema e ha tentato di affrontarlo, pur adottando spesso allegre politiche di spesa. Quale altro fine primario ha un governo di qualsiasi colore se non sbloccare la crescita del paese che amministra?

La seconda riguarda le politiche del debito. In estrema sintesi in Italia dal governo Andreotti 1972 – fra breve festeggiamo (!) il cinquantennio – la politica dell’acquisizione del consenso si è tradotta in produzione di debito. Nel 1992 (governo Amato) e nel 2011 (governo Monti) abbiamo dovuto affrontare due crisi gravissime di sostenibilità che ci hanno spinti sull’orlo del default di modello argentino. Superata la crisi, nessuno si è posto il problema del rientro strutturale del debito. Con l’aggravante che nel 2008 abbiamo fronteggiato la crisi accrescendolo di 30 punti in percentuale sul pil. E nel 2020 ripetiamo la ricetta per fronteggiare il post Covid 19. Di conseguenza il debito, mai asciugato quando la congiuntura favorevole lo permetteva, alla fine del primo ventennio del XXI secolo risulterà accresciuto del 60% rispetto a quello d’inizio secolo. Chi lo potrà pagare appena i tassi ricominceranno a risalire? Nessun governo (ripeto, di destra o di sinistra o dichiaratamente populista) si è posto il problema (naturalmente, fatta salva la retorica ricorrente della dichiarazione che “il debito è sostenibile”. Forse. Ma a quali condizioni?). In compenso abbiamo la faccia tosta politica di replicare ai partner europei che ci invitavano al rigore finanziario.

La terza riguarda le politiche giovanili. Col 1995 (governo Dini) è iniziato il tira e molla sulle pensioni secondo la prassi del “un passo avanti e uno e mezzo indietro”. Venticinque anni dopo continuiamo a parlare di Fornero e contro Fornero. Ma in un quarto di secolo nessuno si è occupato di riallocare risorse liberate a sostegno delle politiche giovanili. Nessuno si è accorto che formiamo giovani per poi abbandonarli o costringerli alla fuga. Nessuno si è accorto di questa “peculiarità” tutta italiana. Abbiamo tolto ai giovani quello che è il fattore portante della crescita: la speranza, la fiducia nel futuro. Ma i governi responsabili della riforma del welfare in quale paese vivevano?

La quarta riguarda le donne. Siamo sopraffatti dal femminismo retorico (quote rosa, ministro che diviene ministra se donna, o sindaca e via discorrendo) in completa assenza di sostegno al lavoro femminile e alla maternità. Fra i paesi a maggiore industrializzazione abbiamo la più bassa percentuale di lavoro femminile. Se poi una donna ha la disavventura di volere un figlio è lasciata pressoché priva di sostegno che non sia una mancetta mensile a termine. Siamo un paese di figli unici, quando va bene, con l’invecchiamento della popolazione più alto del mondo. Ne consegue che nel tempo il sistema previdenziale diviene insostenibile. Possibile che tutti i governi da quarant’anni a questa parte non si siano accorti che la senescenza di una popolazione è sinonimo di fermo o regressione di un paese? Domanda del tutto retorica.

La quinta riguarda la giustizia fiscale che è un aspetto fondamentale anche se non il solo della giustizia sociale. Anche su questo versante riusciamo a detenere un primato storico nell’ambito dei paesi europei. Nessun paese soffre di una evasione fiscale paragonabile a quella italiana e nessun paese europeo tollera una economia criminale delle proporzioni nostre. È una storia che ci portiamo dietro dal dopoguerra. Ma questo oggi avviene quando la caduta del segreto bancario e il controllo automatizzato dei flussi finanziari rendono tutto potenzialmente trasparente e controllabile.

Ma si dà il caso che evasione fiscale voglia dire: a. accrescere la pressione fiscale su chi paga le imposte (il cittadino onesto); b. far pagare il costo dei servizi a chi non evade (anche quelli usufruiti dagli evasori); c. limitare i servizi sociali erogati (scuola, assistenza e previdenza) per la non sostenibilità degli stessi; c. aumentare il debito a danno dei cittadini onesti che lo dovranno pagare. Ma il ceto politico nazionale non sembra essersene accorto (naturalmente al netto della retorica delle “manette agli evasori”, della proclamata lotta strenua all’evasione fiscale e via discorrendo).

Cinque punti per ripartire e per invertire il ciclo. Altrimenti i fondi europei si disperderanno in mille rivoli e saremo punto e a capo.

A-proposito-di-ripartenza.pdf

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