“Italo ardito”, l’eroismo degli eruditi e la Colombaria

Siamo d’accordo: l’anniversario più importante del 2019 è quello della morte, mezzo millennio fa, di Leonardo da Vinci. Ciò non esclude il rilievo di altre date degne d’una qualche rievocazione: tra di esse, a noi preme ricordare quella della scoperta della Repubblica di Cicerone, fatta da Angelo Mai nel 1819 in un codice palinsesto delle raccolte vaticane, contenente un commento ai salmi agostiniani. Si trattava di porzioni limitate dei primi libri, eppure era un progresso enorme rispetto alle modestissime conoscenze precedenti dell’opera, un tempo famosa e fino ad allora conservata in piccola parte, il cosiddetto Somnium Scipionis, da Macrobio; e il ritrovamento proiettò il nome del Mai sul palcoscenico dove agivano i grandi ricercatori germanici dei capolavori perduti dell’antichità, i vari Niebuhr, Bluhme, Goeschen, cui s’ascrivevano risultati comprendenti il clamoroso recupero delle Institutiones di Gaio.

“Italo ardito, a che giammai non posi/ di svegliar dalle tombe/ i nostri padri? Ed a parlar gli meni/ a questo secol morto, al quale incombe/ tanta nebbia di tedio?”. Pochi mesi dopo l’evento, Giacomo Leopardi lo celebra in una canzone dove non ci si sofferma certo sugli aspetti tecnici del trattamento chimico dei codici riscritti, ormai passato dai primordiali infusi di noce di galla alla potente e distruttiva tintura giobertina (un composto di ferrocianuro di potassio e d’acido cloridrico); si preferisce valutare invece l’esito dell’impresa accostandola a quelle di celebri geni italici, fra i quali espressamente vengono citati Dante e Petrarca, Colombo, Ariosto e Tasso e infine Alfieri. A noi interessa ricordare non tanto gli sviluppi umani e sociali desunti dal contrappunto tra le glorie ormai trascorse e la bruttezza dell’odierno “secolo morto”, quanto il fatto di suggerire conseguentemente al lettore una dimensione inedita dell’erudizione e della filologia, quella eroica e ‘risorgimentale’, in un’ottica che non può essere trascurata da chi abbia presente la visuale analoga degli scopi della Colombaria proposta dal Peruzzi, uno dei fondatori del sodalizio, il quale parlava apertamente della vocazione di essa a sfidare il tempo distruttore della memoria, coltivando il lato lodevole della curiosità, in generale vizio esecrabile. La sconfitta dell’oblio necessitava dell’inquadramento filologico-storico d’un dato oggetto, che permetteva d’ergerlo a elemento costruttivo della ‘torre del sapere’; operazione compiuta da un soggetto provvisto di competenze adeguate alla riscoperta e all’esibizione del reperto. In generale, il problema è quello sempiterno del penetrare e sorpassare l’apparenza con l’aiuto d’un artificio scientifico: in questo caso il mezzo chimico permetteva d’oltrepassare il testo visibile, noto e banale, per fare emergere quello nascosto, sconosciuto e pregiato.

La ripresa leopardiana del tema va accostata a quella dovuta, anni dopo, al Manzoni nella celeberrima Introduzione al suo capolavoro, dove nei panni dell’anonimo secentista tratta dell’“istoria” definita “una guerra illustre contro il tempo”, ad esso sottraendo gli anni prigionieri, anzi fatti cadaveri, risuscitandoli per schierarli nuovamente in battaglia. Perché nelle trattazioni dei due letterati sono ravvisabili delle differenze, ma un fondo comune, la sollecitazione delle antiche carte a parlare, a raccontare eventi. Così inducono a riflettere sui compiti e sulle responsabilità di quanti assumano la veste di storiografi, servendosi allo scopo di strumenti che via via aggiornano e cambiano discipline impropriamente dette ausiliarie della ricerca storica, quali la paleografia e la diplomatica, la cronologia e la genealogia, la numismatica e la sfragistica.

Nei primi decenni dell’Ottocento, nell’ormai secolare vicenda della Colombaria il cambiamento dei metodi aspettava al varco il glorioso sodalizio; e avrebbe potuto determinarne la definitiva rovina, poiché le novità minavano alla base le antiche consuetudini di studio. Ma l’allora presidente, Gino Capponi, aveva la preparazione adatta per rispondere alle recenti sollecitazioni, puntando proprio sulla storia accademica e su quel concetto di ‘patria’ che strettamente si legava alle ricerche e alle figure dei ricercatori. In una seduta straordinaria della Società, il 24 agosto 1834, richiamava i soci “all’illustrazione delle cose nostre”, ed elencava in modo generico una serie di campi, dallo storico al letterario, dall’artistico all’archeologico, dove avrebbe trovato posto anche “la memoria di quelli che in essi si distinsero”, attraverso contributi che accrescevano la gloria e lo splendore della Toscana. Tutto ciò sembrava al Capponi “consentaneo allo spirito e alle intenzioni dei nostri benemeriti fondatori”, e in sintonia con lo Statuto accademico, il cui tenore concedeva d’altronde ad ogni socio la libertà di “dissertare ancora sopra qualunque erudito argomento”.

Un colpo alla botte delle prime usanze, e uno al cerchio delle inclinazioni attuali: in quell’adunanza si nominavano 24 nuovi soci, distribuiti tra le varie città del Granducato, nell’evidente speranza di apporti scientifici mirati, attinenti alle realtà territoriali, al contempo si rinunziava al costume un po’ ammuffito del nome accademico, evidente simbolo d’un’età ormai passata. In ogni caso, una potente spinta perché la macchina colombaria proseguisse il cammino inaugurato nel 1735, indicato dai fondatori come rispondente ad una legittima, anzi ‘virtuosa’ curiosità, e degnamente sintetizzata dal Leopardi lodatore ante litteram delle foscoliane “egregie cose”: “o scopritor famoso/ segui; risveglia i morti,/ poi che dormono i vivi; arma le spente/ lingue de’ prischi eroi; tanto che in fine/ questo secol di fango a vita agogni/ e sorga ad atti illustri, o si vergogni”.

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