ARNALDO FORLANI

Con Arnaldo Forlani scompare l’ultimo “grande” esponente della cosiddetta prima Repubblica. Per singolarità della sorte, ci lascia nel momento in cui il governo e la maggioranza in carica sembrano segnare una svolta in quella lunga transizione non conclusa che ha caratterizzato la vicenda politica e istituzionale italiana da “tangentopoli” ai giorni nostri. Forlani muore a trent’anni dalla morte della Dc, della quale non fu l’ultimo segretario politico, perché alla segreteria gli subentrò Martinazzoli nell’ottobre 1992; ma fu l’ultimo grande interprete di quella conclusiva stagione della politica che il cosiddetto Caf, ossia l’accordo a tre fra Andreotti, Craxi e Forlani sottoscritto nel 1989, aveva sancito.

Le date sono significative. Nel 1989 l’universo comunista, interno e internazionale, entra nella sua crisi finale. Non è più un declino, come si era manifestato nella prima stagione Gorbačëv, o, per i fatti di casa nostra, con le segreterie Natta e Occhetto. È una tracimazione che toglie fondamento politico al disegno di De Mita che puntava al dialogo col Pci per rivitalizzare politica e istituzioni. Apparentemente il partito comunista è spacciato; comunque, non è più un interlocutore valido né per un dialogo funzionale alla riforma delle istituzioni né come sponda politica di una opposizione maggioritaria. Il Caf si basa sul presupposto, errato, che la fine della guerra fredda abbia segnato un chiaro sconfitto, il partito comunista, e degli altrettanto indubitabili vincitori, i partiti del cosiddetto pentapartito.

La miopia del Caf fu non comprendere che la fine della guerra fredda preludeva alla dissoluzione di tutto il sistema dei partiti che avevano prosperato, a modo loro, alla sua ombra. In questa triade, Forlani rappresentava per antonomasia l’uomo della mediazione, il centrista che reinterpretava il partito degasperiano, quasi che il partito dell’unità dei cattolici, il partito di centro che guarda a sinistra, fosse rigenerabile nei suoi fondamenti morali e politici. Egli era convinto che fosse Craxi e il suo partito, trasformato ormai in partito del leader secondo una formula che avrebbe avuto grande fortuna nell’Italia della cosiddetta seconda Repubblica, il giusto interlocutore a sinistra. Certamente fra i tre, Forlani era quello che aveva la visione più alta della politica e, pur colpito da una condanna che espiò con socratica sopportazione per finanziamento illecito del partito a seguito del coinvolgimento nell’affare Enimont, mantenne una onestà personale che gli fu riconosciuta da amici e avversari.

In realtà, il Caf alimentava un presupposto spartitorio delle massime cariche dello stato e della politica che fu compiuto solo in una prima fase. Garantì a Forlani il ritorno alla segreteria della Dc, che era pur sempre un partito il cui consenso elettorale superava il 30%, e permise ad Andreotti il rientro a Palazzo Chigi. Ma mancò la terza fase, ossia l’ascesa di Andreotti al Colle e di Craxi alla presidenza del Consiglio. A scompaginare il quadro, intervennero l’avvio di tangentopoli (febbraio 1992), a Milano, e l’attacco mafioso allo stato con l’esordio dell’omicidio di Lima (marzo 1992) a Palermo, chiaro avvertimento ad Andreotti.

La rottura dell’accordo si manifestò nella corsa al Quirinale nel maggio 1992 per la quale Forlani non raggiunse l’obiettivo per 29 franchi tiratori, riconducibili almeno in parte alla corrente di Andreotti. Ormai il Caf era morto, nonostante che alle elezioni politiche di aprile 1992 la Dc avesse sfiorato alla Camera il 30% e che il Psi avesse oltrepassato il 13%, avvicinandosi al risultato fallimentare dei post comunisti che col Partito democratico della sinistra avevano ottenuto un disastroso 16% dei voti. Ma, al di là dei numeri e delle percentuali di voto, la forte affermazione della Lega di Umberto Bossi nei collegi del nord aveva fortemente meridionalizzato la Dc: era il preludio della fine.

Il Forlani centrista di vocazione post degasperiana non poteva più operare nelle condizioni di una egemonia politica che la Dc aveva irreversibilmente perduto. Il sistema dei partiti della prima Repubblica era finito. Da allora, per trent’anni, Forlani si autoconfinò nel ruolo di spettatore distaccato e silente di una evoluzione politica che gli era estranea, sopravvivendo a tutti gli uomini della prima Repubblica che via via uscivano di scena; ultimo Ciriaco De Mita, il suo grande avversario, che ci ha lasciati nel maggio dello scorso anno.

Con la scomparsa di Forlani la prima Repubblica è definitivamente passata alla storia. Una storia, soprattutto per quanto riguarda gli esiti finali, ancora tutta da scrivere.

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