Milan Kundera e la salute del romanzo

“Lei è comunista, signor Kundera?” – no, sono romanziere.” “È dissidente? – No, sono romanziere.” “Lei è di sinistra o di destra? – Né l’uno né l’altro. Sono romanziere”.

Piccolo elenco di risposte che traduco da Les testaments trahis (Gallimard 1993 e Adelphi 1994) di Milan Kundera, nato a Brno nel 1926 e da poco scomparso: un libretto di riflessioni dove si parla anche del fenomeno di accecamento lirico che accompagnò il Terrore nella rivoluzione russa: la liricizzazione del Terrore, cioè, compiuta anche dal genio poetico di Majakovski. L’intuizione folgorante e traumatica de senso di questo processo di liricizzazione  – più temibile dello stesso Terrore, scrive – risale per Kundera agli anni della rivoluzione comunista in Cecoslovacchia (che lui continua a chiamare Boemia): e lo vaccina per sempre contro ogni retorica “lirica”.

“La sola cosa che allora desiderai profondamente, avidamente, era uno sguardo lucido e disincantato. L’ho trovato infine nell’arte del romanzo”.

Non si tratta per lui dunque semplicemente di praticare un “genere” letterario invece di un altro, ma di un atteggiamento mentale: “una saggezza, una posizione, che esclude l’identificazione con una politica, una religione, una morale, una collettività; anzi, una nonidentificazione cosciente, ostinata, furibonda, concepita non come evasione e passività, ma come resistenza, sfida, rivolta.”

A questa si accompagna la ricerca del “proprio” del romanzo: che è la conoscenza dell’essere umano. Dell’essere umano nella storia, certo, non della Storia in quanto tale.

Possiamo partire da questo punto. Si tratta dunque di leggere i suoi romanzi come romanzi, se si ama il romanzo, forma più recente di altre forme classiche come la poesia, nata con la modernità e fiorita al massimo grado nei secoli diciannovesimo e ventesimo – e forse ormai peritura. I romanzi: la loro struttura, i loro movimenti, il loro tempo musicale, i loro personaggi, i loro temi. Uno dei quali può essere appunto il rifiuto della liricizzazione, della retorica del lirismo che offusca le storie dei singoli esseri umani e le loro più profonde verità, anche psicologiche.

Ma leggere i romanzi di Kundera in quanto tali  non è sempre facile per i suoi lettori e critici, soprattutto a causa della sua particolare vicenda storico-politica: dalla Cecoslovacchia comunista del 1948, dove pure viene allontanato dall’Istituto di Cinematografia dove insegna e mandato per breve tempo in fabbrica come operaio, alla condivisione delle speranze della Primavera di Praga; e poi alla famosa invasione a Praga dei carri armati di quegli stessi russi che nel 1945 avevano liberato la Cecoslovacchia dai tedeschi di Hitler del 1939, fino al sofferto abbandono del suo paese per la Francia nel 1975. E poi la perdita della cittadinanza originaria e l’acquisto di una nuova cittadinanza francese, fino alla riabilitazione nella Cecoslovacchia ormai fiera del suo figlio quasi Nobel, al quale consacra il Premio Kafka nel 2020.

I suoi romanzi non sono autobiografici: ma i suoi personaggi si muovono nella seconda metà del secolo scorso, in quel luogo della Terra, e in quel momento della Storia, nella quale sono come lui immersi: nella crisi degli ideali dopo la catastrofe delle due guerre mondiali, che tocca le ultime generazioni di europei e centroeuropei e non cessa di porre interrogativi alle menti e alle coscienze.

Ma le vicende dei personaggi dei suoi romanzi sono interessantissime proprio per il fatto che Kundera non scrive dal punto di vista della Storia, ma dal punto di vista dell’esistenza – la quale è inserita nello scorrere delle vicende storiche: anzi ne è condizionata. Non è lo “sfondo” storico, ma vicende che catapultano i personaggi in modi e luoghi diversi, e che esigono da loro opinioni, passioni, lucidità e soprattutto decisioni. E l’autore, i suoi personaggi cerca di capirli fino in fondo interrogandosi sui veri motivi delle loro scelte sui temi fondamentali dell’esistenza: come per esempio l’amore. Che in queste storie di amanti è in stretta interazione con la sua manifestazione corporea più evidente e indecifrabile: il sesso e l’erotismo, declinato anch’esso in varie forme. Motivo questo che probabilmente contribuì, assieme alla cogente e fondamentale vicenda politica, al successo e alla grande diffusione dei suoi romanzi negli anni Settanta-Ottanta e Novanta in moltissime lingue, successo culminato con L’insostenibile leggerezza dell’essere del 1984.

E come può fare un autore, di fronte a eventi e sconvolgimenti di grande portata storica, a non farsene inghiottire? L’antidoto di Kundera è l’ironia, il passaggio dal registro tragico e dalla liricizzazione – che finisce per scadere nel Kitsch – al registro ironico che è il suo, portatore di dubbi e interrogativi e ambiguità: fino al comico. Al riso, insomma, ben presente nella grande letteratura dei suoi maggiori: primo di tutti naturalmente Kafka, che come sappiamo leggeva nei cafés di Praga le avventure dei suoi personaggi per muovere il riso degli astanti; e poi il giornalista e scrittore Jaroslav Hašek, boemo come Kafka e nato a Praga nel 1883 come Kafka e a lui spesso avvicinato, autore della straordinaria, feroce satira antimilitarista Il buon soldato Scv’èik, che allinea una serie di comici avvenimenti del soldato nella Grande guerra. Altri nomi potremmo fare di questa couche centroeuropea cara a Kundera, da Hermann Broch a Mann e Musil e ai suoi stessi contemporanei come il polacco-lituano Gombrovicz o lo jugoslavo Danilo Kiš.

Resta il fatto che quello dell’umorismo è il terreno degli equivoci più frequenti con i suoi lettori. Nel Valzer degli addii  – terzo e ultimo romanzo scritto in patria nel 1973 (tradotto da Serena Vitale per Bompiani nel 1977) dopo Lo scherzo e La vita è altrove e la raccolta di racconti Amori ridicoli –  si parla di inseminazione artificiale: invitato da un illustre scienziato a una conferenza sul tema, Kundera si trova trascinato nel terreno della seriosità: ma il romanzo è comico! si difende, non va preso così sul serio! “Allora i suoi romanzi, replica lo scienziato con diffidenza, non vanno presi sul serio?” Io mi impappino, racconta Kundera, a questo punto, ma alla fine capisco: niente è più difficile che far capire l’umorismo.

Anche la sessualità ha avuto un suo romanziere e amante “lirico”: D.H. Lawrence, che non coglie assolutamente mai il “comico” che può esistere anche nella sessualità. Se la satira è un’arte a tesi, sicura della propria verità per ridicolizzare gli altri; l’ironia al contrario è un complesso intreccio di registri, anche contraddittori, tra vari movimenti e riflessioni.

Kundera rintraccia la linea dell’umorismo anche in Francia, sua patria adottiva: scrive in francese i suoi ultimi quattro romanzi: La lenteur, 1994, L’identité, 1997, L’ignorance, 2000, La fête de l’insignifiance, 2013. Alle origini del romanzo, come si sa, sta Cervantes col suo romanzo fatto di episodi e umorismo: Don Quixote. E in Francia nello stesso secolo c’è il grande Rabelais che pochissimi leggono e sono in grado ormai di apprezzare e quasi non fa più ridere; e nel Novecento Kundera ricorda Ionesco e Céline … e si potrebbe indagare meglio questa seconda ricostruzione, francese e à rebours, dei propri antenati.

Grande spazio all’Illuminismo e ai suoi autori libertini, cultori dell’erotismo anche a tre o di gruppo, come Kundera, nonché del romanzo di pensiero. Ma il roman philosophique poco ha a che fare con i romanzi pensanti di Kundera: che non vuole fare filosofia, e nemmeno romanzi filosofici, ma romanzi-romanzi: che pongono degli interrogativi. E dunque pone domande ai grandi Valori codificati e anche alla grande Filosofia: e soprattutto alle – direbbe il Flaubert del dizionario umoristico Bouvard et Pécuchet –  “idées reçues” in merito.

Per esempio, sull’esilio: è proprio vero che un esule resterà per sempre tale? E che accade se, anche se ormai si è ambientato e si trova bene nel nuovo paese, decide di tornare in patria? Accade semplicemente, che niente ritorna: il passato, passa. Non torna. E anche il suo paese è un altro paese, come il resto del mondo.

Ancora un tema fondamentale: cos’è un individuo? Dove risiede la sua identità? Tutti i romanzi cercano una risposta a questa domanda. Per l’estetica di Dostoevski, osserva Kundera, l’identità risiede nella visione del mondo, nella weltanschauung: i personaggi sono radicati in una ideologia personale molto originale secondo la quale agiscono secondo una logica inflessibile. Invece “per Tolstoi l’ideologia personale è ben lungi dall’essere una cosa stabile sulla quale può essere fondata l’identità” (Les testaments trahis): e Kundera ricorda la pagina di Guerra e pace col meraviglioso dettaglio del principe Andreij Bolkonskij che nella battaglia di Austerlitz alza gli occhi e vede il cielo azzurro…

Uno dei suoi libri più profondi, dal bellissimo titolo Il libro del riso e dell’oblio è il primo libro ancora scritto in lingua cèca ma già un anno dopo l’arrivo in Francia, dopo sei anni di assenza della scrittura. Qui Kundera trova, e prova, una strategia musicale applicandola alla struttura del romanzo: la strategia beethoveniana delle variazioni (la Sonata opus 111), che gli permette, dice, di restare in contatto diretto e ininterrotto con alcune questioni esistenziali. Con i suoi temi, anche in senso musicale.

Figlio di un pianista, e musicista lui stesso, ricorda in una rara intervista a Guy Scarpetta (cit. in “La Repubblica” 10 feb 1998) che i suoi romanzi in lingua ceca fino a L’immortalità sono grandi composizioni costituite da più movimenti contrastanti, come la forma-sonata; ad essi seguono quelli francesi scritti secondo l’arte della fuga, dove temi e motivi sono sempre presenti e in continua variazione. E non possiamo trascurare qui il dettaglio di un ricordo del suo vecchio maestro di composizione ebreo, che accompagnandolo alla porta improvvisamente comunica all’allievo tredicenne una sua riflessione su Beethoven: più della riflessione in sé, scrive Kundera, “mi è cara l’immagine di un uomo che, poco prima del suo atroce viaggio, riflette a alta voce davanti a un bambino sul problema della composizione dell’opera d’arte.” (Les testaments trahis)

Ecco infine un altro rapido e necessariamente appena abbozzato esempio di variazione su un tema: il tema della debolezza, e della vertigine della debolezza, che ritroviamo in due romanzi in sette parti: il Libro del riso e dell’oblio e L’insostenibile leggerezza dell’essere. Nel primo, in uno straordinario colloquio dove ognuno interpreta a modo suo le parole dell’altro, Zdena, che è brutta,  non vuole restituire al suo ex-amante Mirek le vecchie lettere che lui vuole riavere, per la sua sicurezza dice. Ma, chiede l’autore entrando in scena, cosa vuole Mirek in realtà? Mirek, come tutti noi, vuole riscrivere il proprio passato: e cancellare Zdena, come una macchia.

Zdena è rimasta sempre fanaticamente fedele al partito: ma non perché, come crede Mirek, è una fanatica politica: “Era rimasta fedele al partito perché amava Mirek”: e da quando lui l’ha lasciata vuole dimostrare che la fedeltà è la qualità più alta nell’essere umano. Lui riparte scornato e sempre seguito da due sorveglianti in borghese, e non riuscirà a cancellarla. Ma perché poi voleva queste sue lettere? E perché era stato con lei? Non per carrierismo, come vuol far credere, ma invece perché era debole e non credeva di poter avere donne belle. Fisico di successo e universitario, ora vuole cancellarla: ma capisce finalmente in una sosta obbligata alle sbarre del passaggio a livello che è proprio perché l’amava che la vuole cancellare … non perché non l’amava, come ha voluto credere.

Si sorride spesso leggendo le riflessioni ordinarie, i capovolgimenti interiori perfino banali dei personaggi di Kundera: però, come nell’operina La volpe astuta del grande compositore cèco Janáček dove i personaggi parlano di banalità, da quella normalità e dalla musica sprigiona una vena di potente nostalgia e malinconia.

Il tema della debolezza, dicevamo, torna ne L’insostenibile leggerezza: questa volta lo spunto è il discorso alla radio di Dubček dopo l’invasione dei carri armati: la sua voce tremante e i lunghi silenzi, poi cancellati dalla registrazione. Capo di uno stato indipendente, era stato portato per quattro giorni nelle montagne dell’Ucraina, minacciato di fucilazione, poi rasato e rivestito lo avevano portato a Mosca e fatto negoziare con Brežnev, e al ritorno, umiliato, aveva parlato alla nazione balbettando e facendo soste continue e con voce tremante. Ma Tereža, tradita da Tomáš, non disprezza più Dubček, non condanna più la sua debolezza: “Si rendeva conto di appartenere ai deboli, a una nazione di deboli, e che a essi doveva essere fedele appunto perché erano deboli e boccheggiavano a metà delle frasi”. Tereža sarà in seguito presa dalla vertigine della propria debolezza, dal voler andare in fondo alla propria debolezza … ma questa è un’altra variazione.

E per inciso diciamo che non tanto si tratta in questo libro, come alcuni hanno creduto ingannati dell’ambiguità del titolo, di una ricerca di leggerezza, ma al contrario di come sia diventata leggera quella che un tempo era pesantezza. Nel Valzer degli addii Jacub ricorda che per Raskol’nikov il suo delitto è una tragedia, al cui peso finisce per soccombere; mentre “Jacub si meraviglia che il suo atto sia così leggero, che non pesi nulla, che non l’opprima. E si chiede se in questa leggerezza non vi sia molto più orrore che nelle vicende isteriche dell’eroe russo.”

Insomma lo spirito del romanzo, scrive Kundera nel libretto saggistico L’arte del romanzo del 1986 (tradotto da Ena Marchi per Adelphi), è lo spirito della complessità: “Ogni romanzo dice al lettore: ‘Le cose sono più complicate di quanto tu pensi!’”. Mentre nello spirito del nostro tempo, prosegue, delle due l’una: o ha ragione Anna o ha ragione Karenin. Entra così qui in gioco un altro tema, quello dei “collaborazionisti della modernità” …

Già il primo ottimo romanzo Lo scherzo del 1967 ne intreccia molti; e anche il secondo, e così via. Leggendone l’intera opera si potrebbero enucleare i vari temi e seguirne lo sviluppo: qui diciamo in conclusione che, curiosamente, è come se tutti questi romanzi osservassero una restrizione ovvero una regola ma qui non detta), per usare un termine della Oulipo, il famoso Ouvroir de Littérature potentielle frequentato anche da Calvino nei suoi anni parigini: ovvero illuminare i problemi più seri dell’umanità senza mai, al tempo stesso, pronunciare una frase seria, o meglio seriosa – come Georges Perec che scrive un romanzo senza mai usare la lettera “e”.

Oppure, esprimere la realtà del mondo moderno e al tempo stesso evitare il realismo.

E infine, come dice la quarta di copertina del suo ultimo romanzo uscito da Gallimard nel 2013, La fête de l’insignifiance (trad. M. Rizzante per Adelphi 2016), realizzare il suo vecchio sogno estetico di un romanzo dove non compaia niente di serio o serioso: “Buffo epilogo. Buffa risata ispirata dalla nostra epoca, che è comica perché ha completamente perduto il senso dell’umorismo …”

Laura Barile

Post scriptum: Ho avuto la fortuna di incontrare Kundera a Milano a cena da amici nei primi anni Settanta. Imbarazzati dalla sua aria di profugo, nessuno gli chiedeva niente. Kundera non parlò. E mi piacque questo tacere che confusamente capivo. Ti piaceva perché non parlava? ha sorriso una mia nipote pochi giorni fa. Sì, mi piacque il suo silenzio.

Lascia un commento