La fine dello stato liberale. Un secolo dopo

Credo che la prima critica avrà per oggetto il titolo di questo intervento. Ma perché mai, si dirà, si fa morire lo stato liberale nel ’21 e non, per esempio, nell’ottobre del ’22, con la marcia su Roma. O, ancora, semplicemente nell’aprile del 1924 con le elezioni del listone, legge Acerbo vigente; o ancora con le leggi “fascistissime” del ’25 e del ’26 che tolsero fondamentali diritti di libertà e anche il semplice “habeas corpus”? Per un fatto politico, non giuridico e neppure riconducibile alla pura violenza eversiva, anti istituzionale che fu la marcia su Roma. Il fatto politico fu sciogliere la Camera che si era formata alle elezioni del novembre 1919. E fu propiziare o avallare le liste denominate Blocchi nazionali, che segnarono una convergenza fra liberali e fascisti. L’errore politico fu tutto di Giolitti che pure aveva avuto grandi meriti.

Il suo governo, infatti, subentrato a quello presieduto da Nitti, era partito benissimo, l’anno prima, definendo con la Jugoslavia la questione di Fiume e cannoneggiando D’Annunzio e i suoi, a dicembre, per fare rispettare gli accordi. Giolitti aveva restaurato l’autorità dello stato che la marcia di Ronchi del settembre 1919 aveva incrinato. Né era stato debole col fascismo nella sua fase di conversione in violenta reazione agraria. Le sue disposizioni ai prefetti erano sempre state di arginare e reprimere la violenza e di restaurare l’ordine legale. Ma il problema non stava al centro; stava alla periferia. Non stava negli ordini che giungevano ai prefetti dal ministero dell’Interno, che Giolitti aveva tenuto assieme alla presidenza del Consiglio. Stava in taluni prefetti, questori e comandanti dei Carabinieri che nei territori di loro competenza spesso preferivano far finta di non vedere. Preferivano non intervenire o intervenire in ritardo quando le squadre fasciste avevano avuto tutto il tempo di devastare la sede della sezione socialista o della Camera del lavoro. Le autorità periferiche dello stato, talora, traevano così vendetta delle umiliazioni subite dalla sinistra più scalmanata nelle fasi cruciali del biennio rosso. Per molti di questi funzionari pubblici era giunta l’ora del riscatto: violenza contro violenza, per saldare il conto. Poi tutto sarebbe tornato come prima. Così pensavano.

In questo clima furono tenute le elezioni del 15 maggio 1921, le ultime vere dello stato liberale. Il giorno delle elezioni si registrarono 29 morti e quello successivo un’altra quindicina, con centinaia di feriti. Era scontato che accadesse. Anna Kuliscioff, a fronte della guerra civile strisciante che attraversava l’Italia, scrisse parole sagge al compagno Filippo Turati, fondatore del partito socialista: “Bisogna essere pazzi di voler fare le elezioni in questi momenti di turbolenza fascista, è di farsi senz’altro iniziatori della più grande e più vasta guerra civile, in tutta Italia. E Giolitti, per quanto vecchio, certo non è arrivato al punto di perdere il senso comune”.

Non vide giusto. Giolitti aveva settantanove anni, un’età molto avanzata, soprattutto allora. Ma non era questo il punto. Il fatto era che la guerra aveva del tutto chiuso la stagione aurea dell’Italia liberale; aveva archiviato un mondo ove le istituzioni rappresentative detenevano centralità nel sistema e dove la politica si faceva essenzialmente in Parlamento. La guerra, che Giolitti aveva avversato, aveva portato alla ribalta forze nuove, incontrollate, scaturenti dalla società civile e guidate da leader demagogici e populisti che se ne infischiavano delle istituzioni rappresentative e che traducevano lo scontro politico in violenza verbale e fisica nella piazza. Questo non era il suo mondo. Non lo comprese, forse anche per la tarda età, e credette con i Blocchi nazionali di istituzionalizzare il fascismo e quindi di amalgamarlo nel sistema, di legalizzarlo e di svuotarlo della sua carica eversiva. Non fu così e nello stesso tempo, entrando in Parlamento, i fascisti guidati da Mussolini misero il piede nelle istituzioni. Mantennero ed accrebbero nel paese la loro forza paramilitare capace di intimorire gli avversari e aggiunsero a questa la legittimazione della rappresentanza istituzionale. Numericamente la pattuglia era ristretta: solo trentacinque, tutti giovanissimi, alcuni, dai nomi che sarebbero divenuti altisonanti nella storia del regime, da Grandi a Bottai passando per Farinacci, addirittura non convalidati perché non ancora trentenni.

Un anno e mezzo più tardi, a conclusione della marcia su Roma, il 30 ottobre 1922 il re incaricò Mussolini di formare il governo. Fu un incarico dato ad un parlamentare che proprio per questo potette ricevere quella investitura, rispettando la forma costituzionale anche se tradendo la sostanza. Si dirà: il duce, nel maggio 1921, sarebbe entrato lo stesso in Parlamento, anche fuori delle liste dei Blocchi nazionali. Forse. Ma sta di fatto che Giolitti lo legittimò ritenendo di istituzionalizzarlo, mentre le istituzioni liberali ne restarono vittima. Ancor prima delle elezioni, Mussolini disse che Giolitti aveva cercato di imbottigliarlo, mentre “noi abbiamo imbottigliato Giolitti”. Purtroppo per l’Italia aveva visto giusto.

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