A CENT’ANNI DA LIVORNO

Quando Bordiga, Gramsci e Terracini decisero di abbandonare il XVII congresso del Psi che si stava celebrando al Teatro Goldoni di Livorno, per fondare al Teatro San Marco il Partito comunista d’Italia, sezione della III Internazionale, il movimento socialista europeo era in fase di ripiegamento. Si era da poco concluso il biennio rosso con una palese sconfitta dei rivoluzionari che erano stati costretti ad assistere al ritorno in fabbrica delle maestranze nell’ottobre 1920 senza che i disegni rivoluzionari della sinistra comunista del Psi, divenuta maggioritaria in direzione, avessero trovato esito.

Il Pc d’Italia nacque, dunque, il 21 gennaio 1921 in applicazione dei 21 punti deliberati dal Comintern l’anno prima e che sancivano la conditio sine qua non perché un partito potesse aderire all’Internazionale leninista. Due erano le questioni chiave sulle quali la maggioranza del partito non aveva trovato convergenza: il cambio del nome e, soprattutto, l’espulsione dei riformisti. I motivi erano evidenti. Anzitutto, i cosiddetti “riformisti di destra”, Bissolati, Bonomi e Cabrini, erano già stati messi fuori dal Psi al congresso di Reggio Emilia, nel 1912; inoltre, gli altri riformisti, oltre ad essere guidati dal fondatore del partito, Filippo Turati, avevano legami privilegiati e radicati con settori maggioritari del movimento operaio e del sindacato, oltre ad avere tenuto una posizione di coerente neutralità durante la guerra. Quindi, estrometterli sarebbe stato un atto autolesionistico e ingiustificato per il partito. Ma questa risposta ai leninisti, che veniva da Serrati e dagli altri rivoluzionari unitari, aveva un’intima contraddizione. Il punto era chiarire se s’intendeva fare la rivoluzione oppure no. Lenin e i bolscevichi insegnavano che la rivoluzione non si faceva a colpi di maggioranza, bensì era l’esito volontaristico di una minoranza qualificata determinata a farla. Mentre il biennio rosso culminato con l’occupazione delle fabbriche aveva dimostrato che il Psi era rivoluzionario a parole, ma non sapeva tradurre le parole in fatti.

Così nasceva un nuovo partito dall’ennesima scissione dal Psi e altre ne sarebbero seguite prima dell’istaurazione della dittatura fascista. Ma questa volta il salto di qualità era marcato perché i terzinternazionalisti scissionisti accettavano non solo di fondare un partito di “rivoluzionari di professione”, ma anche di farlo seguendo il modello e i dettami del partito guida di Mosca, all’interno di un movimento a dimensione globale. Queste condizioni non avevano precedenti nella storia delle Internazionali socialiste, ove tutti i partiti avevano operato in condizioni di pariteticità ed erano rimasti fedeli al proprio modello nazionale.

Nel secondo dopoguerra, il fine primario del disegno politico di Palmiro Togliatti, guida indiscussa del partito fino alla morte, fu proprio quello di superare questa estraneità dal contesto nazionale che minacciava di isolarlo su posizioni marginali. Il mondo diviso in due campi costringeva i partiti comunisti operanti in realtà nazionali occidentali ad adeguarsi alle condizioni in cui dovevano operare o a condannarsi ad una sterile clandestinità rivoluzionaria. Di fatto il successo del Pci, il “partito nuovo”, nella storia italiana che dalla Liberazione giunge fino alla caduta del muro di Berlino fu determinato proprio dal rigetto del partito espressione della élite rivoluzionaria per farne un partito di massa, fortemente calato nella realtà italiana, oltre che rispettoso della nostra prevalente cultura religiosa.

Più tardi, quando la storia del Pci si era conclusa e la sinistra italiana era entrata nel lungo tunnel della ricerca di nuova identità politica, culturale e sociale, dato l’esaurimento del modello di classe operaia prodotto da superati modelli produttivi, qualcuno disse, e ancor oggi ripete, che il Pci togliattiano e soprattutto post togliattiano era di fatto divenuto un partito socialdemocratico. Ossia era divenuto un partito di massa, interprete e rappresentante dei ceti sociali che altrove, soprattutto nei paesi del nord Europa, erano rappresentati dai partiti socialdemocratici e che perseguiva una politica riformista e gradualista.

Il giudizio storico è corretto, ma parziale perché trascura due fattori che hanno caratterizzato la storia del Pci e con i quali il partito non ha mai voluto fare i conti. Il primo era la matrice fondativa, ossia la natura del partito delle origini che era radicalmente avversa al modello socialdemocratico. Questa avversione è rimasta connotato insuperato della storia del partito che non ha mai voluto abbandonare la denominazione di partito comunista per quello di partito socialista e avviare un processo di ricomposizione con le altre forze socialiste. Non mancava chi, come i “miglioristi” di Giorgio Napolitano, avrebbe voluto farlo. Ma sono rimasti sempre in minoranza. Il secondo era il legame con Mosca. I finanziamenti al PCI, che continuarono ad arrivare clandestinamente fino a dopo la morte di Berlinguer, testimoniavano di un legame mai scisso fino in fondo. È vero che Berlinguer prese le distanze dall’Unione Sovietica, dichiarando che la “spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre si era esaurita” e che il Pci aveva potuto fare scelte politiche autonome grazie al suo essere collocato in un paese occidentale tutelato dall’Alleanza Atlantica. Ma queste dichiarazioni, certo dirompenti del segretario politico, non si sono mai tradotte in un atto politico di rottura ufficiale con Mosca come espresso da un congresso del partito o dal comitato centrale. Lo stesso D’Alema, che aveva accompagnato Berlinguer nel suo ultimo viaggio a Mosca, ha scritto che il segretario del Pci non avrebbe mai ufficialmente spezzato i legami con Mosca, anche se da quelle parti era guardato con sospetto. Non lo avrebbe fatto per non spaccare il partito provocando la rivolta dei filosovietici guidati da Cossutta; e non lo avrebbe fatto per una intatta fedeltà alla tradizione comunista come parte di un grande disegno internazionale.

Questa ha comportato il mancato cambio delle maggioranze e della guida del governo italiano, reso impossibile dalla conventio ad excludendum, che impediva ad un partito comunista di andare al potere in un paese occidentale. Il ricambio politico nell’alternanza avvenuto in Germania, con Willy Brandt, leader dei socialdemocratici, nel ‘69, e in Francia con Mitterrand rifondatore del partito socialista e presidente della Repubblica, nel ’81, in Italia mancò, nonostante i tentativi di Moro, di Berlinguer e di De Mita di superare il blocco del sistema. Questo sta all’origine del ritardo italiano e dell’indebolimento delle nostre istituzioni e della loro credibilità agli occhi dell’opinione pubblica.

La storia di questo centenario è quindi storia di un fallimento che si è riverberato negativamente sulla storia di tutti gli italiani.

Lascia un commento