I PROBLEMI COSTITUZIONALI POSTI DALL’EMERGENZA PANDEMICA

  1. L’emergenza per il contagio da coronavirus ha fatto emergere alcuni dei nodi più discussi del nostro sistema istituzionale.

A chi spetta, in primo luogo, gestire l’emergenza e con quali strumenti normativi.

Quale bilanciamento, in secondo luogo, è ammissibile nella nostra Costituzione fra il diritto alla salute e alla vita dei cittadini e i diritti di libertà ed eguaglianza che vengono necessariamente incisi dalle misure adottate

La pandemia impone, in terzo luogo, un intervento accentrato, in grado di imporre soluzioni uniformi ed omogenee, ovvero può essere affrontata con un sistema plurale di livelli decisionali nella contrapposizione tra esigenze di unità e le esigenze delle autonomie.

 

I

 

  1. I costituenti esclusero di proposito di individuare una specifica procedura (presente in altre Costituzioni), per la dichiarazione e la gestione dello stato di emergenza, consapevoli che l’attribuzione di poteri eccezionali, in una società disomogenea, presenza il rischio oggettivo di alterare gli equilibri costituzionali.

Non mancano norme che prevedono interventi di emergenza.

Ed infatti: il Parlamento ha il potere di deliberare lo stato di guerra e di conferire al governo i poteri necessari (art. 78 Cost.); “in casi straordinari di necessità ed urgenza”, il Governo può adottare provvedimenti con forza di legge, in via provvisoria, con il controllo di costituzionalità, in sede di emanazione, del Presidente della Repubblica e l’immediata sottoposizione all’esame del Parlamento, che deve decidere entro sessanta giorni la conversione in legge (art. 77 Cost.); nelle “situazioni di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica”, il Governo si può sostituire agli organi delle Regioni e degli enti locali, derogando all’assetto ordinario delle rispettive competenze (art. 120 secondo comma, Cost.).

Poteri di emergenza possono trovare fondamento nello stesso art. 2 della Costituzione. Come ha affermato la Corte costituzionale (nell’esaminare le norme eccezionali per il contrasto al terrorismo), Parlamento e Governo hanno “non solo il diritto e potere, ma anche il preciso e indeclinabile dovere di provvedere adottando un’apposita legislazione di emergenza, quando vi siano da tutelare i diritti di libertà e i diritti fondamentali” (n. 15 del 1982). Del resto, ad esigenze di emergenza, fanno riferimento anche le norme che garantiscono le singole libertà costituzionali, quando ne consentono la limitazione per motivi di “sanità e sicurezza” (art. 16 sulla libertà di circolazione), per motivi di “sicurezza e incolumità pubblica” (art. 17 sulla libertà di riunione), per motivi di “sanità ed incolumità pubblica” (art. 14, secondo comma, in relazione agli accertamenti e le ispezioni domiciliari) per evitare danni “alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (art. 41, secondo comma Cost., sulla libertà di iniziativa economica).

 

  1. Per la tutela della salute, che l’art. 32 Cost. riconosce come “fondamentale diritto dell’individuo” e “interesse della collettività” (com’è noto la nostra è la prima Costituzione, del secolo scorso, che ha attribuito la natura di diritto fondamentale al diritto alla salute), il nostro ordinamento prevede poteri di ordinanza, con i quali possono essere adottate misure anche in deroga alla disciplina vigente, per far fronte a situazioni di emergenza sanitaria (sono i poteri di ordinanza in materia sanitaria del Ministro della Salute e dei Presidenti delle Regioni; nonché dei sindaci, così come le ordinanze adottate nell’ambito del servizio nazionale di protezione civile).

Queste ordinanze extra ordinem possono essere adottate solo quando vi sia l’impossibilità di utilizzare gli strumenti ordinari; vi siano adeguate motivazioni tecnico-scientifiche; abbiano effetti limitati alla durata della situazione di emergenza; e, soprattutto, non violino le norme costituzionali (v. Corte costituzionale n. 115 del 2000).

Quando, come nel caso della pandemia, le misure da adottare debbano imporre limiti alle libertà, si pone il problema di adottare provvedimenti che rispettino il principio della riserva di legge, posto a garanzia sia delle libertà sia di ogni limite o prestazione imposta ai cittadini (art. 23 Cost.).

Per questo motivo, il Governo, per adottare le misure suggerite dagli scienziati come le uniche in grado di contrastare il virus, ha potuto utilizzare l’unico strumento consentito dalla Costituzione, cioè il decreto legge ai sensi dell’art. 77 Cost..

 

  1. Nei decreti legge che ha adottato (in particolare il n. 6, n. 19 e n. 33 del 2020), il Governo ha individuato un elenco dettagliato, e ben specificato (se ne contano almeno trenta), di misure dirette ad imporre i comportamenti ritenuti indispensabili per limitare la diffusione del contagio.

L’applicazione concreta di tali misure è stata affidata a decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, in grado di applicare le misure di contenimento del virus sull’intero territorio nazionale, modulandole in relazione alla evoluzione della epidemia. Non sono stati però sospesi, nelle more dell’adozione dei provvedimenti del Presidente del Consiglio, i poteri di ordinanza del Ministro, così come degli altri organi statali, regionali e locali, a tutela della salute, in modo da consentire l’adozione tempestiva di provvedimenti e di interventi di emergenza giustificati da situazioni locali non previste né prevedibili.

Secondo alcuni, l’attribuzione al Presidente del Consiglio dei ministri del potere di adottare misure contenenti così gravi limiti ai diritti di libertà, avrebbe violato il principio della riserva di legge, che esige che l’individuazione dei comportamenti e delle regole in grado di incidere sulle sfere di libertà deve essere effettuato in modo esaustivo dalla fonte legislativa, senza lasciare ampi spazi discrezionali alla sede amministrativa.

L’adozione di D.P.C.M. anziché di decreti legge avrebbe eluso sia il controllo del presidente della Repubblica in sede di emanazione sia il controllo del Parlamento in sede di conversione dei decreti legge.

Si è anche dubitato che i decreti del Presidente del Consiglio abbiano assunto la natura di regolamenti, emanati senza i previsti controlli di cui all’art. 17 della legge n. 420 del 1988 (parere del Consiglio di Stato, emanazione con decreto del Presidente della Repubblica). In realtà le ragioni di urgenza hanno giustificato l’attribuzione direttamente al Presidente del Consiglio del potere di applicare le misure previste dettagliatamente dai decreti legge, esercitando una discrezionalità riferita solo alla modulazione temporale e territoriale dei provvedimenti, in rigorosa conseguenzialità rispetto alle indicazioni provenienti dai dati scientifici raccolti dagli organi scientifici a disposizione dell’esecutivo. In questo senso si è pronunciato il giudice amministrativo (Tar Calabria, I Sez., n. 841 del 9 maggio 2020), secondo cui il D.p.c.m. “non è un atto a carattere normativo bensì un atto amministrativo generale”, riconducibile a poteri di ordinanza extra ordinem e sindacabile, specie in relazione al rispetto del principio di adeguata motivazione e di proporzionalità nel commisurare l’estensione in concreto dei limiti indicati dal legislatore.

 

  1. Si può ritenere che il Governo, nella gestione dell’emergenza pandemica, abbia correttamente utilizzato gli strumenti normativi a sua disposizione ed abbia anche individuato un procedimento speciale sostanzialmente conforme alle norme costituzionali, ma è indubbio che, di fronte a misure e interventi così penetranti sull’intera vita sociale, economica e produttiva, la gestione dell’emergenza debba avvenire con un maggiore coinvolgimento degli organismi rappresentativi ed in particolare del Parlamento (ma anche dei Consigli Regionali). In questa direzione, in sede di conversione del d.l. n. 19/20, si è introdotta la previsione che “il Presidente del Consiglio dei Ministri o un Ministro da lui delegato illustra preventivamente alle Camere il contenuto dei provvedimenti da adottare … al fine di tenere conto degli eventuali indirizzi dalle stesse formulati; ove ciò non sia possibile, per ragioni di urgenza connesse alla natura delle misure da adottare, riferisce alle Camere” nel termine di quindici giorni.

Sul piano delle procedure parlamentari, le Camere dovranno prevedere, nei propri regolamenti, strumenti adeguati per garantire la tempestiva interlocuzione con il potere esecutivo.

Tutto ovviamente passa anche attraverso l’individuazione di strumenti che garantiscano la capacità di funzionamento dell’organismo parlamentare anche nella fase pandemica (ivi compresa la possibilità di partecipazione da remoto dei parlamentari impossibilitati ad essere presenti fisicamente: le modifiche regolamentari in materia si potrebbero ispirare ai meccanismi già presenti nel Parlamento europeo e dovrebbero sicuramente definire con chiarezza presupposti e modalità con le quali attivare questo tipo di procedura in via del tutto straordinaria ed eccezionale). Non si può invece condividere la proposta di inserire in Costituzione procedure per la gestione dell’emergenza. Sono ancora attuali i motivi per i quali i costituenti esclusero di introdurre una simile previsione: anche nell’emergenza debbono essere mantenuti gli equilibri del rapporto dialettico tra Governo e Parlamento, che caratterizza la nostra forma di governo parlamentare.

 

II

 

  1. Le misure adottate dal Governo, nel porre limiti di notevole intensità alle libertà costituzionali, hanno posto non soltanto i problemi, già accennati, per il rispetto del principio della riserva di legge, ma hanno anche messo in evidenza la necessità di effettuare un corretto bilanciamento tra il diritto alla salute e le altre libertà.

Su questi temi, la Corte costituzionale – con particolare riferimento al rapporto tra tutela della salute e tutela dell’ambiente, in relazione anche alla libertà di iniziativa economica – si è più volte pronunciata ed ha chiarito che “tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri” (sentenza n. 85 del 2013).

Nel precisare – in materia di vaccinazioni – che l’art. 32 Cost. “postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività”, la Corte ha stabilito che il contemperamento tra i principi costituzionali “lascia ampio spazio alla discrezionalità del legislatore nella scelta delle modalità attraverso le quali assicurare una prevenzione efficace delle malattie infettive”, “potendo egli selezionare talora la tecnica della raccomandazione, talaltra quella dell’obbligo, nonché, nel secondo caso, calibrare variamente le misure, anche sanzionatorie, volte a garantire l’effettività dell’obbligo”, ma tale discrezionalità “deve essere esercitata alla luce delle diverse condizioni sanitarie ed epidemiologiche, accertate dalle autorità preposte … e delle acquisizioni, sempre in evoluzione, della ricerca medica, che debbono guidare il legislatore nell’esercizio delle sue scelte in materia” (sentenza n. 5 del 2018).

Le scelte effettuate dal Governo nell’individuare le misure per il contenimento dell’epidemia hanno fatto applicazione di questi principi, stabilendo di determinare le misure secondo il principio di adeguatezza e proporzione, sulla base delle indicazioni provenienti dalle competenze scientifiche attivate (accanto agli organismi tecnici del Ministero della Salute – in particolare l’Istituto  Superiore di Sanità – è stato attivato un apposito Comitato tecnico scientifico nell’ambito del Servizio della Protezione civile).

 

  1. L’obiettivo costituzionale di tutela della salute, inteso sia come diritto fondamentale che come interesse della collettività, si collega così ai principi fondamentali che la Costituzione ha stabilito in ordine alla promozione dello sviluppo scientifico e tecnologico (art. 9) e alla tutela della libertà di ricerca scientifica (art. 33), con la necessità di indicare un metodo di decisione politica che tenga conto, in modo trasparente e secondo le condizioni di un sistema democratico, degli sviluppi e delle indicazioni della comunità scientifica.

Il principio che deve essere applicato in questi casi è quello di precauzione, secondo cui l’assenza di dati certi sul piano scientifico non esclude la responsabilità di assumere le misure di cautela necessarie e di intervenire per prevenire e tutelare il diritto alla salute e le risorse ambientali.

La valutazione del rischio non può prescindere dalle indicazioni che vengono dalle sedi scientifiche, ma la individuazione del margine di rischio accettabile è affidato alla responsabilità dell’organo politico e – come ha sottolineato la Commissione europea nell’interpretare il principio di precauzione – la decisione ultima deve essere assunta dagli organismi rappresentativi, perché è soltanto attraverso il dibattito democratico che si può giungere a bilanciare i contrapposti interessi e assumere le responsabilità che consentono di gestire l’emergenza nell’interesse della collettività.

L’esperienza della gestione della pandemia suggerisce di: individuare procedure trasparenti che permettano di verificare le fonti e le modalità di accertamento dei dati scientifici; organizzare in modo tempestivo e adeguato il flusso delle informazioni, della raccolta dei dati e dei monitoraggi; individuare strumenti e sedi nelle quali aprire il contraddittorio tra le posizioni scientifiche diversificate.

 

III

 

  1. La pandemia ha coinvolto la responsabilità collettiva di tutti i livelli di governo (internazionale, europeo, statale, regionale, locale e della stessa autodisciplina dei consociati), con interventi e strategie unitarie, ma anche con misure necessariamente diversificate, in relazione ai tempi di sviluppo e all’estensione territoriale del contagio.

È tornato così in primo piano il tema del rapporto tra il livello di governo centrale e quello regionale, nell’esercizio delle competenze legislative ed amministrative, dopo cinquant’anni di attuazione delle regioni di diritto comune e dopo venti dalla riforma del Titolo V, della seconda parte della Costituzione, intervenuta nel 2001.

La riforma costituzionale del 2001, nell’attribuire la “tutela della salute” e la “protezione civile” alla competenza legislativa concorrente delle Regioni, aveva infatti consolidato il sistema già impostato con la legge ordinaria istitutiva del Servizio sanitario nazionale (n. 833 del 1978) e con la creazione del sistema della protezione civile (legge n. 225 del 1992 e successive riforme confluite nel t.u. di cui al d.lgs. n. 1 del 2018).

La gravità e l’estensione, sia territoriale che temporale, della pandemia ha comunque suggerito soluzioni eccezionali, non solo sul piano delle fonti normative da adottare, ma anche sul piano delle modalità di coordinamento tra le varie autorità competenti, sollevando nuovi problemi e criticità, oggetto del dibattito che riguarda le prospettive del nostro Stato regionale.

Sono emersi almeno tre ordini di problemi.

 

  1. In primo luogo, le carenze verificatesi nell’organizzazione del servizio sanitario rispetto alla capacità di prevenire l’emergenza pandemica (e le differenziate modalità con cui l’emergenza è stata affrontata nei vigenti modelli regionali non omogenei) hanno portato alcuni a suggerire la necessità di attribuire alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia “tutela della salute”.

Ma in proposito si può osservare che non occorrono revisioni costituzionali, perché lo Stato è titolare di (ed ha in concreto potuto utilizzare) strumenti e competenze in grado di garantire le istanze unitarie e di coordinare efficacemente gli interventi diretti a contrastare la pandemia.

Lo Stato, infatti: ha competenze legislative esclusive (per la “profilassi internazionale” – art. 117, II co., lettera q – nonché per la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” – art. 117, II co., lettera m); può dettare i principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente;  può definire il “coordinamento finanziario”, con un’incidenza decisiva sulla spesa sanitaria regionale; può avocare a sé le competenze amministrative per le quali, in base al principio di sussidiarietà di cui all’art. 118, I co., Cost., debba essere assicurato un esercizio unitario;  ha, infine, il potere – ai sensi dell’art. 120, II co., Cost. – di sostituirsi agli organi delle Regioni e degli enti locali nel caso, fra l’altro, di “pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica”, così come “quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (ivi compreso ovviamente il fondamentale diritto alla salute).

Dall’altra parte, la competenza legislativa concorrente attribuita alle Regioni implica la loro diretta responsabilità per garantire l’efficienza e l’accessibilità del servizio, secondo una logica che si è consolidata da oltre un quarantennio (e che vede nella sanità il nucleo più rilevante dell’azione politica delle regioni, con l’impiego di circa il 70% delle risorse a disposizione dei loro bilanci) ed ha il pregio di consentire un’organizzazione sanitaria proporzionata alle esigenze delle comunità regionali, con capacità di flessibilità e di sperimentazione di nuovi modelli che possono giustificare la differenziazione territoriale.

Non occorre, né è opportuno riportare al centro le competenze, si può solo suggerire uno sforzo maggiore del legislatore statale nel definire i principi fondamentali e i vincoli alle competenze regionali in grado di superare le disarmonie che possono incidere negativamente sulla tempestività delle risposte del servizio nazionale (per esempio: indicando i livelli essenziali di assistenza, le procedure, i metodi ed i livelli qualitativi dei servizi, riferibili specificamente alle emergenze pandemiche; fornendo indicazioni chiare e più adeguate per definire il rapporto tra strutture sanitarie pubbliche e private; dettando criteri per la gestione e il reclutamento in via straordinaria del personale; dettando criteri per organizzare il rapporto tra pazienti e strutture mediche territoriali; disciplinando lo spazio per le iniziative di solidarietà espresse dalle comunità locali).

 

  1. In secondo luogo, la molteplicità delle ordinanze e dei provvedimenti amministrativi adottati dal Governo (nella forma dei DPCM, dei decreti del Ministro della Salute, dei decreti del Dipartimento della protezione civile, del Ministro dell’interno, ecc.), dalle Regioni (con ordinanze che hanno sia anticipato che attuato le misure governative), ed anche dai Sindaci, ha creato difficoltà di comprensione da parte dei cittadini delle misure da applicare, dando luogo anche a casi di conflitto; con il conseguente suggerimento da parte di alcuni di adottare forme semplificate ed accentrate nella catena di comando, per rendere omogenea l’efficacia delle misure adottate (con anche la proposta di introdurre in Costituzione una “clausola di supremazia” a favore dello Stato).

Occorre tenere presente che la competenza delle Regioni e degli enti locali, nel definire le modalità di attuazione delle misure adottate dal Governo e nel dettare prescrizioni mirate alle specifiche situazioni locali, risponde alla logica del sistema autonomistico, dove le decisioni vengono adottate dagli organi responsabili più vicini (e rappresentativi rispetto) alle esigenze delle comunità territoriali; mentre un’eccessiva semplificazione della linea di comando costituirebbe una compressione ingiustificata del diritto delle collettività locali di amministrare le parti più importanti degli affari pubblici (diritto che deriva dal principio fondamentale di cui all’art. 5 Cost., ma che è enunciato ancor più chiaramente  nella Carta europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo nel 1985, e resa esecutiva in Italia con la legge n. 439 del 1989).

Sul piano propositivo, per superare un sistema che risulta obbiettivamente complesso,  si potrebbero definire meglio i rapporti tra le prescrizioni adottate a livello statale e quelle che possono introdurre le Regioni, precisando il ruolo degli organi statali, nel definire direttive, linee guida, protocolli operativi, criteri di monitoraggio dell’andamento epidemiologico e chiarendo le modalità con le quali le Regioni possono introdurre misure in deroga (si potrebbe prevedere un procedimento di notifica preventiva al Governo delle ordinanze che gli enti autonomi intendono emanare: in pratica, si potrebbero ripristinare, nei casi di emergenza, forme di consultazione – se non di vero e proprio controllo – preventivo, con tempi resi rapidi dalle modalità telematiche utilizzabili per le riunioni tra i soggetti pubblici).

 

  1. In terzo luogo, è emersa la difficoltà di utilizzare strumenti per una tempestiva ed effettiva cooperazione tra Stato e Regioni nella determinazione degli interventi da porre in essere. Si è segnalato che la previsione di un mero parere obbligatorio, ma non vincolante, delle Regioni ed in particolare (per i DPCM riferiti all’intero territorio nazionale) del solo Presidente della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, avrebbe escluso un apporto adeguato delle autonomie regionali all’elaborazione dei provvedimenti e alla verifica della congruità delle misure adottate dal Governo.

Alla difficoltà di attivare, nei tempi stretti dell’emergenza, le procedure d’intesa, non si può supplire con un coordinamento effettuato, solo sul piano della prassi, mediante consultazioni quotidiane per via informatica, non meglio istituzionalizzate e disciplinate.

Forme più intense e formalizzate di coordinamento dovrebbero essere individuate ed attivate, perché i DPCM contengono misure che incidono non soltanto sulle libertà dei cittadini, ma anche sul tessuto economico e sociale, che il nuovo Titolo V della seconda parte della Costituzione affida anche alla responsabilità delle istituzioni regionali.

Le Regioni sono infatti competenti, con poteri di legislazione concorrente, non solo per la tutela della salute e per la protezione civile, ma anche per materie come la “tutela e la sicurezza del lavoro”, l’“istruzione”, la “ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi”, l’“alimentazione”, l’“ordinamento sportivo”, le “reti di trasporto”. Ed ancora alle regioni spetta la competenza legislativa “residuale” in materie come l’industria, il commercio, il turismo, l’agricoltura, l’artigianato. In sintesi, hanno la responsabilità di gestire le attività di supporto per tutte le più rilevanti realtà dei distretti economici e industriali di ciascun territorio regionale.

Sul piano propositivo, occorre individuare, nella relazione tra Governo centrale e Regioni nella gestione dell’emergenza, forme di raccordo più intense e permanenti in sedi idonee, adeguando – come richiesto dall’art. 5 Cost. – sia l’amministrazione che i metodi della legislazione alle esigenze delle autonomie. Ciò sia sul piano della partecipazione delle Regioni alla formazione delle leggi sia sul piano del funzionamento delle sedi istituzionali di raccordo delle Amministrazioni.

Sul piano legislativo, da tempo si ipotizzano – senza successo – forme di partecipazione dei rappresentanti regionali nel Parlamento (i tentativi di revisione costituzionale per trasformare la seconda Camera in Senato delle regioni o delle autonomie, sono stati bocciati dai referendum del 2005 e del 2016). Ma si deve segnalare che è tuttora vigente, e diviene urgente attuare, l’art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001, che prevede la possibilità di integrare con rappresentanti delle autonomie la Commissione bicamerale per gli affari regionali prevista dall’art. 126, I co., Cost. (le difficoltà tecniche dell’attuazione derivano dalla necessità di adeguare anche i regolamenti parlamentari; ma l’integrazione con i rappresentanti regionali produrrebbe l’auspicato rafforzamento del ruolo del Parlamento nella definizione dei rapporti tra il centro e la periferia).

Sul piano amministrativo, va rafforzato il sistema delle “sedi istituzionali” delle Conferenze Stato-Regioni e Unificata, per garantire il necessario coordinamento tra Stato centrale e autonomie; va superata la prassi di affidare a meccanismi di relazione “politica” di tipo informale il dialogo, che deve assumere carattere istituzionale, tra il Governo e le Regioni. Il sistema delle Conferenze può essere reso più efficiente, mediante una riorganizzazione che riunisca e semplifichi le molte sedi in cui è articolato e che, utilizzando le nuove tecnologie, consenta forme di consultazione più tempestive.

Anche su questo piano, non occorrono (né al tempo stesso è possibile attendere) revisioni della Costituzione. È sufficiente, ma necessario, perfezionare e chiarire gli strumenti di raccordo già esistenti individuando adeguati procedimenti formali (e trasparenti) in grado di garantire la partecipazione regionale sin dall’elaborazione delle strategie e nell’individuazione delle misure da attivare.

La disciplina del Testo Unico n. 1/2018 sulla protezione civile è stata derogata dai decreti legge adottati dal Governo, prevedendo un intervento diretto del Presidente del Consiglio dei Ministri e l’attivazione di organi consultivi che si sono sovrapposti alle competenze del Servizio nazionale della protezione civile.

Il modello organizzativo che ne è scaturito ha avuto aggiustamenti successivi, ma rende indubbiamente necessario proporre una sistemazione legislativa che permetta di affrontare emergenze di questa natura, con un quadro normativo consolidato.

Il Governo è in possesso degli strumenti per imporre le proprie decisioni; non soltanto con i ricorsi in sede di giurisdizione amministrativa e di giustizia costituzionale, ma anche con i poteri di controllo sostitutivo degli organi regionali, di cui all’art. 120, II co., Cost., e i poteri di annullamento d’ufficio in via amministrativa delle ordinanze degli enti locali. Ma per l’esercizio di tali poteri, potrebbero essere introdotti dei correttivi, da applicare nelle situazioni di emergenza (non tanto per i rimedi giurisdizionali, che nella recente vicenda si sono attivati con efficacia e rapidità; quanto per la semplificazione del procedimento necessario per giungere ad esercitare con efficacia e tempestività il potere sostitutivo e il potere di annullamento d’ufficio).

In conclusione, per garantire il raccordo e la partecipazione delle Regioni alla formazione dei provvedimenti adottati dal Governo, è senza dubbio insufficiente il coinvolgimento meramente formale mediante l’acquisizione di pareri obbligatori ma non vincolanti. Occorre individuare sedi e metodi più efficaci nei quali si possano definire, secondo il principio di “leale cooperazione” (art. 118 Cost.), i contributi alla gestione dell’emergenza che debbono essere attivati sia dallo Stato che dalle Regioni.

Problemi-costituzionali-emergenza-pandemica.pdf

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