Fra Covid-19, “Spagnola” e Peste nera

La chiamarono “la spagnola”. In altre parti del mondo ebbe altri nomi: fièvre de Parme in Francia, febbre delle Fiandre in Inghilterra, malattia bolscevica in Polonia, febbre di Bombay a Ceylon. Fu detta spagnola, perché la Spagna, paese non belligerante, fu l’unica a darne notizia.
Sulla terribile pandemia influenzale, che tra il 1918 e il 1919 contagiò un miliardo di uomini, uccidendone venti milioni, infatti, cadde la congiura del silenzio. Ne parlarono poco i giornali, ancora sottoposti alla censura di guerra, ai quali i prefetti raccomandavano di calmare la popolazione, e ne parlarono poco anche i medici, che brancolavano nel buio. L’epidemia si abbatté sull’Italia in tre fasi tra il 1918 e il 1919 su una popolazione provata dalla guerra, affamata e priva di difese immunitarie.
Sembrava, ed era, influenza, ma un’influenza «speciale», che colpiva soprattutto i giovani e sembrava risparmiare gli anziani, evolvendo, in pochi giorni, in qualcosa che rassomigliava a una bronco-polmonite devastante, che portava presto alla morte.
Proliferarono, anche allora, i rimedi più fantasiosi: un medico francese consigliava ai malati di bere molto vino rosso sino a che il berretto appeso al pomello della porta non fosse apparso sdoppiato. Lo scrittore veneziano Tito Spagnol fu caustico circa le cure in voga: «Quattro pastiglie di chinino e un po’ di paglia per morirvi sopra».
Un’influenza, allora, ma anche molto più di una influenza: un flagello di ferocia biblica. In Italia fece qualcosa come 600 mila morti, più vittime della stessa sanguinosissima guerra, terrorizzando le popolazioni civili, già provate dal conflitto, mettendo alla prova le fragili strutture assistenziali, impegnando le istituzioni sanitarie, sfidando medici, clinici e batteriologi, posti, questi ultimi, di fronte alla prima cocente sconfitta nel cammino breve, ma costellato di successi, della microbiologia.
Quante analogie con l’attuale epidemia di Covid-19, un acronimo divenuto familiare, che nasconde mesi di contagi, di morti, di situazioni di grande emergenza, di dilemmi etici profondi, che hanno scosso la nostra società e che tuttora continuano a compromettere l’equilibrio di una cultura, che non era pronta a fronteggiare una pandemia di questo tipo e di questa portata.
Eppure, dopo la SARS, gli scienziati si erano chiesti cosa sarebbe successo se fosse scoppiata una pandemia. Si erano domandati se i posti-letto delle terapie intensive sarebbero stati sufficienti. Se il personale sarebbe stato in numero adeguato e se i trattamenti disponibili avrebbero funzionato. Un rischio, che pareva lontano e improbabile, si è materializzato e ha quasi fermato l’orologio della Storia, riportandoci a scene e sensazioni, che le “magnifiche sorti e progressive” della Medicina parevano avere definitivamente allontanato.
Mascherine, distanziamento sociale, disinfettanti, proibizione di svolgere funzioni religiose, sospensione degli scambi commerciali…
Guardare le immagini del medico del Rinascimento, in periodo di epidemia, con la spongia olfacienda chiusa nel lungo becco della maschera, per filtrare i miasmi considerati responsabili della diffusione della malattia, è diventato tragicamente monitorio.
Il medico si spogliava, infatti, del suo bell’abito rosso, ornato di pelliccia bianca, per indossare l’abito delle emergenze, nero, munendosi di guanti, cappello, bacchetta e maschera, cercando, allora come oggi, di proteggersi, utilizzando tutti i presidi che erano disponibili.
Leggere l’Introduzione alla prima giornata del Decamerone diventa, allora, una vera e propria immersione nella storia di quell’epidemia di peste, che imperversò in tutta Europa nel 1348, e che tanti spunti offre alla riflessione di oggi. Allora l’epidemia si mosse dalla Crimea, dalla colonia genovese di Kaffa. Oggi, è arrivata dalla città cinese di Wu-han, che evoca anche solo nel nome una cultura lontana. Allora, come oggi, le Autorità fornirono istruzioni e suggerimenti, consigli e disposizioni, avvertimenti e ordini, per conservare la sanità. Allora, si incolpò il Khan, che, avendo posto Kaffa sotto assedio, quando la peste scoppiò tra le file del suo esercito, lanciò con le catapulte, dentro le mura della città, i cadaveri degli appestati… e la peste, partita da Kaffa, raggiunse l’Europa.
Nel 1348, la peste si manifestava con la comparsa di macchie nere o scure, in prossimità delle stazioni linfonodali.
La medicina era completamente inerme, priva di risorse e tanti si improvvisavano terapeuti e guaritori, approfittando della buona fede delle persone e della loro creduloneria. I morti appestati erano allontanati senza canti, né luminarie, spesso nascosti dal buio della notte.
La sepoltura avveniva nelle fosse comuni scavate oltre le mura cittadine, lontano dal perimetro consacrato della chiesa parrocchiale e del cimitero, ricoperti da tre braccia di calce viva, per evitare che i cani randagi facessero scempio dei corpi incustoditi.
Potere laico e gerarchie ecclesiastiche diffondevano, durante la peste, direttive comuni intese a sollecitare una sospensione della ritualità, per evitare il contagio.
Così teologi e giuristi predicavano l’obbedienza alle direttive del magistrato di Sanità e giustificavano la sospensione delle sepolture in chiesa, per il pericolo che ciò avrebbe comportato per i fedeli raccolti in preghiera.
Come non pensare a quella teoria di camion dell’esercito, che, nella notte, portavano i morti di Bergamo in cimiteri lontani?
Le città si spegnevano, i commerci si interrompevano, le botteghe non risuonavano più dei rumori del quotidiano e l’economia progressivamente si paralizzava.
Quali rimedi? Dispensatori di aromi, per profumare l’aria, ritenuta responsabile della malattia, aceto, sostanze aromatiche.
La popolazione della città, colpita dalla peste, cerca salute e salvezza nella sfera del sacro, rivolgendosi ai santi taumaturghi, preposti alla difesa dalle epidemie: San Rocco, San Sebastiano, Santa Rosalia….
I protagonisti del Decamerone, sconcertati dal numero sempre crescente di morti, optano per l’isolamento, vivendo in una villa isolata, “dove sono rade le case e gli abitanti”.
Finché la peste è stata, fino al 1700 inoltrato, presenza costante nella vita delle persone, queste scene si sono ripetute nel tempo e nello spazio, per poi sbiadirsi alla luce del “progresso”.
La peste, paradossale ispiratrice di capolavori: Tucidide, Lucrezio, Boccaccio, Manzoni, Defoe, Camus… Ma anche Bruegel, Mattia Preti, Micco Spadaro, Luca Giordano, Poussain…fino a diventare metafora di tutti i mali che popolano il mondo.

 

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