Cominciamo a chiudere il cerchio? Economia ed ecologia al tempo del coronavirus

Si parla sempre più di frequente, in termini tanto convinti quanto generici, della necessità di trovare un nesso armonioso e operativo fra economia ed ecologia, invocando l’avvento di un’economia “circolare”.

Può sembrare un’istanza banale, alla luce del fatto che l’economia gode di una sua circolarità – addirittura espansiva – attraverso la moneta e la finanza, ma questo non è affatto vero per l’economia reale della produzione. Infatti, se economia e finanza sostengono circolarmente i flussi di investimento, di produzione, di risparmio e di consumo, la produzione di “cose” deriva in principio da risorse e più precisamente da risorse naturali, che la produzione stessa inquina o consuma, lungi dal ricostituire.

Fra gli economisti, Nicholas Georgescu-Roegen (The Entropy Law and the Economic Process, 1971) ha dimostrato che la produzione dei beni materiali, lungi dall’essere un ciclo tecnico, è in realtà un tubo acceleratore dell’entropia che ingoia risorse e sputa rifiuti; le prime sono prelevate dall’ambiente naturale e i secondi vengono rigettati nel medesimo ambiente durante o al termine del processo produttivo.

La chiusura circolare del tubo della produzione richiede una molteplicità di percorsi di intervento e di azione, tesi a recuperare le risorse che sono incatenate nei prodotti e gettate con i rifiuti, a mantenere e ripristinare le qualità delle risorse naturali inquinate dalla produzione stessa, a ridurre le emissioni inquinanti a valle e i consumi di materie a monte dei processi, a sostituire le fonti di energia non rinnovabile con energie rinnovabili, le risorse meno abbondanti con risorse più abbondanti nell’ecosistema. Questi percorsi, oltre ad essere numerosi, sono complessi e hanno velocità molto variegate: possono bastare pochi minuti ore, come per il riuso di un recipiente di vetro, o possono richiedere molti anni; fra i più lenti lo smaltimento delle scorie, massimamente quelle nucleari.

In quello stesso anno il biologo Barry Commoner pubblicò The Closing Circle: Nature, Man, and Technology, che fu subito un best seller, ma ci vollero più di vent’anni perché alla Conferenza mondiale di Rio del 1992 prendesse avvio – almeno nelle intenzioni – una politica ambientale globale, fondata sull’obiettivo dello sviluppo sostenibile. Da allora si sono tenuti altri due Summit per lo sviluppo sostenibile a cadenza decennale (in Sudafrica e di nuovo a Rio) e ogni anno si tiene una Conferenza delle Parti (COP) dell’UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), il gruppo di scienziati cui l’ONU dopo Rio ha affidato il compito dello studio del cambiamento climatico, che risveglia ogni volta speranze e aspettative puntualmente deluse [1]; azioni anche importanti vengono annunciate e poi spesso rinviate o semplicemente dimenticate.

Tutti ricordiamo che il 2019 è sembrato l’anno della svolta, soprattutto grazie all’azione di Greta Thunberg e al suo grande successo, non soltanto mediatico, al grande risveglio dei giovani in favore dell’ambiente. Con il 2020 è arrivato il coronavirus e i giovani hanno sperimentato il lockdown e il distanziamento sociale. Ma si è anche diffusa nella nostra società la percezione dell’esistenza di un nesso fra la pandemia e il deterioramento delle condizioni ambientali globali: la distruzione degli ecosistemi (soprattutto delle foreste), l’inquinamento delle falde, l’aggressione alle specie selvatiche, la densità delle polveri sottili…. Qualche ecologista arriva ad affermare che questa che viviamo sia solo una modesta prova generale dei disagi globali che l’umanità è destinata a subire in un futuro neppure troppo lontano, se non si avvieranno serie azioni di cura dell’ambiente.

Vediamo in breve che cosa è accaduto in proposito per effetto del CoViD 19.

Abbiamo visto cerbiatti felici di giocare con le onde sui bagnasciuga delle nostre spiagge, piroette di delfini nelle acque della Laguna di Venezia, ciuffi di erba fiorita fra le pietre di Piazza del Campo e di Piazza Navona, che a contrario ci hanno reso l’immagine plastica dell’impronta della specie umana sull’ecosistema. Più banalmente, ci siamo accorti della maggior purezza dell’atmosfera, del calo delle polveri nell’aria delle nostre città. Fenomeni palpabili quanto, purtroppo, velocemente reversibili.

Quali, invece, le azioni di politica dell’ambiente messe in atto? E quale il loro nesso con l’esperienza della pandemia?

Le dichiarazioni di intenti non sono mancate: il Ministro dell’ambiente Costa, ma anche il Primo Ministro Conte, hanno dichiarato che la ripresa non potrà che partire da un New Green Deal, che d’altronde è l’obiettivo che si era posto l’UE all’inizio di quest’anno. Ma, all’insegna del “Se non ora quando?”, quali le azioni messe in atto fin qui?

Una ce n’è, ed è abbastanza significativa. Si tratta dell’ecobonus previsto nel Decreto Rilancio per l’isolamento termico delle abitazioni e l’efficientamento degli impianti energetici. E’ stata fissata una detrazione fiscale al 110% delle spese, con possibilità di cedere il relativo credito fiscale alla banca o all’impresa; la cessione del credito può attivare un piccolo quanto istruttivo mercato domestico delle emissioni.

Nel frattempo, però, il crollo dei prezzi minaccia un prolungamento della vita economica del petrolio, i rischi di contagio legati al trasporto pubblico spingono ad un ricorso generalizzato ai mezzi di trasporto privati, la riduzione dello smart working spinge ad un nuovo aumento della mobilità; i vantaggi per il clima e la qualità dell’aria rischiano di ridursi a mera congiuntura.

Inoltre gli effetti della ripartenza dell’economia sul capitale naturale possono diventare molto negativi se non si adottano misure per lo smaltimento e il riciclo corretto di dispositivi di protezione individuali come mascherine e guanti, per ridurre l’uso di plastica monouso nelle attività di ristorazione, per promuovere la preferenza per i servizi a quella per i beni.

Per le mascherine, il cui consumo è destinato ad essere sempre più elevato, i messaggi della politica alla popolazione sono essenzialmente d’igiene urbana, come la raccomandazione del tutto ovvia di non gettarle al suolo. Vanno gettate nei cassonetti di raccolta indifferenziata, perché i materiali con cui sono costruite non ne consentono il recupero. I sanitari sostengono che ci sono dei vincoli legati all’efficienza degli strumenti di protezione, ma quelli hanno ancora un’altra storia: in fase di smaltimento, diventano rifiuti speciali. Per i dispositivi di comunità, come le mascherine indossate da chi (ipoteticamente) non è positivo al virus, possono e debbono essere usate tecniche di produzione che le rendano riutilizzabili e riciclabili, la cui implementazione è allo studio ma dovrebbe essere sostenuta fin da ora da una comunicazione adeguata.

La strada dell’economia circolare gode già di un’adesione culturale diffusa, che sta alla politica rendere effettiva.

[1] Alla COP 21 di Parigi nel 2015 è stato firmato un accordo che impegna a mantenere l’innalzamento della temperatura globale sotto i 2° e – se possibile – sotto 1,5° rispetto ai livelli pre-industriali ma, malgrado le numerose evidenze del nesso fra cambiamento climatico e diffusione di malattie nel mondo, Trump ha dichiarato ufficialmente di voler uscire dall’accordo.
La COP26, prevista per il novembre 2020 a Glasgow, è stata rinviata al 2021, a causa del COVID-19. Con essa, è stato rinviato anche l’evento dedicato ai giovani: “Youth4Climate: Driving Ambition”, che doveva essere ospitato dall’Italia.

 

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