I limiti della politica economica dell’UE di fronte a crisi sistemiche

Si discute animatamente sugli strumenti messi in campo dall’Europa per venire fuori dalla crisi COVID-19. Per la verità un’analisi economica rigorosa del Meccanismo europeo di Stabilità (MES)- nella versione originaria pre-crisi, con condizioni di accesso ex-ante ed ex-post, e in quella di linea di credito specifica senza condizionalità (Pandemic Crisis Support (PCS), Eurogruppo 8.5.2020) – nonché di un Recovery Fund con emissione di titoli del debito comune (Eurobond), deve essere inserita nel contesto teorico del così detto federalismo budgettario e del coordinamento delle politiche fiscali in un’unione monetaria. Temi al confronto dei quali il dibattito tutto italiano MES sì MES no è assolutamente marginale.

Negli stati federali il bilancio federale funge da strumento di stabilizzazione sia automatica che discrezionale degli shock. Nell’Eurozona la scelta di non completare la moneta unica con un bilancio federale è stata dettata da ragioni politiche: l’unione monetaria era già una tappa significativa e impegnativa verso una federazione europea e rappresentava il limite che i governi e l’opinione pubblica non erano ancora disposti a superare. Ma l’esperienza indicava che un bilancio del 5% del PIL sarebbe stato utile all’esordio della moneta unica, invece ci si è cullati nell’illusione che gli stati membri avessero un potere di stabilizzazione sufficiente a contrastare l’evoluzione economica sfavorevole, per quanto attiene sia agli shock asimmetrici specifici di un paese sia a quelli simmetrici estesi a tutti. Quindi è prevalso l’assunto, teoricamente debole, secondo cui la moneta unica non implica un bilancio federale ma una sorveglianza delle politiche di bilancio nazionali.

La funzione di stabilizzazione è perciò mal definita nell’Unione: essa tocca in parte alla banca centrale che gestisce la moneta, che però si è vista assegnare come obiettivo prioritario la stabilità dei prezzi, e in parte ai bilanci nazionali, ma questi ultimi hanno margini ridotti dalle disposizioni di disciplina fiscale come il Patto di stabilità e crescita. La Grande recessione, successiva alla crisi finanziaria del 2008, ha mostrato come una stabilizzazione di bilancio a livello di Eurozona fosse in realtà necessaria per liberare la BCE dagli sforzi per combattere la deflazione, quando i tassi di interesse sono a livello zero, e aiutare gli stati membri a evitare di porre in atto politiche procicliche, quando la crisi è severa. Si è cominciato allora a parlare di «capacità fiscale», un termine volontariamente ambiguo, dato che può significare sia un bilancio specifico, cioè un fondo di assicurazione macroeconomica, sia un sistema di trasferimenti ciclici, basati sull’output gap di ciascuno stato membro.

In ogni caso, presupposto di qualunque capacità fiscale comune è il coordinamento delle politiche economiche; al riguardo, la letteratura economica identifica tradizionalmente due giustificazioni: la produzione di beni pubblici euro-comuni e l’internalizzazione delle esternalità della politica economica, due motivi che si applicano particolarmente nell’Eurozona. Da una parte, la stabilità finanziaria può essere considerata come un bene pubblico e giustificare sotto questo profilo una politica comune. Dall’altra, la partecipazione a un’unione monetaria dà luogo a delle esternalità specifiche della politica di bilancio espansiva che, in tempi di crisi, divengono decisamente positive, soprattutto quando il tasso di interesse nominale è prossimo allo zero. In tal caso, le politiche budgetarie nazionali devono rinforzare gli sforzi delle politiche monetarie per stabilizzare l’Eurozona nel suo insieme, ma i tentativi in questa direzione si sono scontrati con la dura realtà di governi nazionali responsabili unicamente davanti ai loro elettori.

In questo scenario è stato istituito il MES nel 2012, con l’obiettivo di fornire prestiti ai membri dell’Eurozona che si trovino in difficoltà finanziarie. Stante la preponderante concezione di coordinamento debole delle politiche di bilancio e di disciplina fiscale (in assenza di bilancio federale) è del tutto logico che siano state messe delle condizioni per accedere a questi prestiti. Comunque il meccanismo è stato usato da Cipro, Grecia, Portogallo e Spagna e, malgrado un certo folclore di racconti, ha consentito, pur nelle difficoltà di aggiustamenti severi, di ristrutturare i propri debiti pubblici, aumentare la competitività internazionale e superare le crisi bancarie interne. Oggi questi paesi viaggiano a tassi di crescita del PIL potenziale superiori a quello dell’Italia.

A ogni modo, la teoria macroeconomica più recente (partendo dal triangolo delle incompatibilità di Mundell), fornisce una ripartizione degli strumenti, in qualche modo ideale: la politica monetaria della BCE deve reagire agli shock che colpiscono l’insieme dell’unione monetaria (shock simmetrici); la politica fiscale deve reagire agli shock specifici a un paese o a un gruppo di paesi (shock asimmetrici); e la politica di bilancio concertata è necessaria per completare la politica monetaria quando diviene insufficiente.

La Grande recessione ha dimostrato come non sia più il tempo del dominio della politica monetaria e dello scetticismo verso l’uso degli strumenti fiscali in funzione anticiclica. La politica fiscale può essere molto efficace come strumento di stabilizzazione, quando agisce in sinergia con la politica monetaria, divenendone complementare. La visione tradizionale può funzionare ancora di fronte a fluttuazioni cicliche moderate e non sincronizzate, con tassi di interesse comunque positivi. La nuova visione della politica fiscale si adatta a situazioni di ampie fluttuazioni e sincronizzate (shock profondi ed estesi), come la grande recessione o la crisi da pandemia, quando i tassi di interesse sono nulli o negativi e la deflazione minaccia la stabilità economica. Di conseguenza le variazioni delle condizioni economiche influenzano inevitabilmente la concezione della politica economica. In questa fase di crisi da Covid-19 con la BCE che acquista titoli sovrani in misura illimitata (PEEP di 750 mld, per l’Italia quasi il 12% del PIL nazionale) siamo nella fase di dominio della politica fiscale. La stessa linea di credito PCS (che consente sempre l’accesso al programma OMT, con condizionalità inalterata) si caratterizza come uno strumento della dominanza fiscale, in quanto i finanziamenti andranno a coprire deficit finanziari causati dalla crisi sanitaria dovuta al Covid-19.

Se di coordinamento delle politiche in un’area monetaria si tratta, prima o poi si deve tornare alla questione di individuare imposte autenticamente europee per finanziare beni pubblici continentali, pagata dai cittadini e dalle imprese e non dagli stati membri. Al riguardo, per il bilancio 2021-2027, il Consiglio d’Europa ha annunciato un consistente adeguamento, specialmente nelle prime fasi. Si sta studiando in proposito la possibilità di rimpiazzare i contributi collegati al PIL con una serie di tributi (la carbon tax comune, un’IS comune, un’IVA riformata comune o un’imposta sul settore finanziario…). Non sarà ancora un sistema fiscale europeo perché le entrate del bilancio europeo dovranno essere accettate all’unanimità e non potranno dunque essere qualificate come imposte europee. Però ci sarà una base su cui costruire la sostenibilità di un debito europeo comune, cioè un vero e proprio sistema di Eurobond con qualifica risk free, in grado di liberare i debiti sovrani dalla volatilità degli spread. Non si può dimenticare che un debito pubblico risulta ai mercati sostenibile se il valore attuale atteso delle spese pubbliche future è pari al valore attuale dei flussi di entrata futuri e ciò richiede qualcosa di molto simile ad un solido sistema fiscale.

Merita un accenno conclusivo l’idea sbrigativa di lasciare in toto alla BCE, non la facoltà, ma l’obbligo di monetizzare il nostro debito, sostanzialmente nella misura che il nostro governo riterrà opportuna. La logica sottostante non è solo dominanza fiscale è semplicemente il superamento del vincolo di non finanziamento monetario dei deficit pubblici, è la fine dell’indipendenza della BCE e il ripristino della sovranità monetaria nazionale e quindi lo smantellamento dell’Eurozona. La monetizzazione del debito è positiva in una fase straordinaria come questa, perché frutto di cooperazione tra paesi, ma non può assurgere a normalità facendo sprofondare l’Eurozona in sindromi di soft budget constraint/rachet effect. Alla fine dell’emergenza occorrerà un piano chiaro, realistico e vincolante per ridrenare gradualmente liquidità, magari limitando la vendita di titoli sovrani, ma ricorrendo ad altre forme di contenimento (es. quote riserve presso la BC). Recentemente Oliver Blanchard (cfr. Vox.eu 15.4 2020) si è posto il quesito se siamo davanti ad un periodo di bassa o alta inflazione. A suo giudizio tutto lascia pensare che sia la prima circostanza prevalere, almeno per i prossimi due anni. Tuttavia, avverte che quella che Sargent e Wallace negli anni ’80 chiamavano l’”aritmetica sgradevole del debito” alla lunga, insieme a balzi in alto del rapporto debito/PIL e del “tasso naturale di interesse” sopra il tasso di crescita reale in USA, può far lievitare il sistema dei prezzi internazionali. La deflazione ristagna, ma l’inflazione infiamma. Per cui i processi avventuristici devono in ogni caso essere evitati.

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