Il nobel Peter Handke

Suscitare scandalo è quasi una costante nella biografia di Peter Handke, fin dagli inizi, che vale la pena ricordare: da studente di giurisprudenza di ventitré anni, proveniente dalla provincia austriaca, per la precisione da un paesino della Carinzia al confine con l’allora Jugoslavia, viene invitato a leggere suoi testi a un convegno del Gruppo 47, nella primavera del 1966. Di solito le riunioni hanno luogo in Germania, una o due volte all’anno; negli anni precedenti ci sono state anche una riunione in Italia e una in Svezia, in questa circostanza si è scelto un luogo molto lontano, negli Stati Uniti. L’Università di Princeton ha infatti invitato il Gruppo a svolgere la sua tradizionale tre giorni di letture e critiche nel proprio campus. Il giovane Peter Handke è agli inizi, ma è entrato nel mercato letterario dalla porta principale: ha mandato nell’estate del 1965 il manoscritto di un romanzo, I calabroni, all’editore Suhrkamp, la più importante casa editrice per la letteratura contemporanea (sono autori Suhrkamp Hermann Hesse, Bertold Brecht, Thomas Bernhard, Max Frisch, Uwe Johnson, Peter Weiss, Paul Celan, Nelly Sachs) e l’editore Siegfried Unseld in persona gli risponde positivamente: il romanzo verrà pubblicato e infatti esce nel febbraio 1966, prima del convegno negli Stati Uniti. Queste poche notizie sono necessarie per inquadrare adeguatamente ciò che alla giovane promessa della letteratura di lingua tedesca venne in mente di fare al convegno di Princeton, peraltro ricordato proprio per questo episodio: invece di adeguarsi alle regole non scritte che governano quel gruppo così potente e influente nel mercato letterario, il terzo e ultimo giorno del convegno Handke lancia un attacco frontale, criticando il tipo di testi che erano stati presentati fino allora per la loro convenzionalità e mancanza di innovazione linguistica; Handke usa un termine che viene ancora ricordato, “Beschreibungsimpotenz”, impotenza del descrivere: una produzione letteraria incapace di creatività e riflessione ricorre alla descrizione per mascherare la propria impotenza, un’accusa radicale che riguarda anche i critici letterari della carta stampata. Qualcuno dei presenti si dirà d’accordo con lui! Alle prese di posizione radicali Handke si era esercitato nell’ormai leggendario “Forum Stadtpark” di Graz, la sede della sua università; oggi si può dire che da quella associazione di autori d’avanguardia sono usciti ben due premi Nobel della letteratura, Elfriede Jelinek nel 2004 e ora Handke.

Il programma poetico del giovane capellone, citato dopo l’episodio di Princeton con l’etichetta di enfant terrible, pur teso a momenti innovativi di avanguardia e di rottura radicale, non escluderà comunque di frequentare anche l’arte della descrizione, anzi. La finezza ed eleganza nel descrivere sarà, accanto a molti altri tratti distintivi, uno dei marchi di fabbrica della scrittura di Handke, tanto che da qualcuno gli verrà rimproverato di essere uno scrittore dell’Ottocento, anche se le sue prime opere si caratterizzano per lo sperimentalismo linguistico, per quella attenzione alla riflessione sul linguaggio che ha una sua specifica tradizione nella cultura austriaca del Novecento. Nella sua prima grande intervista televisiva del 1969, quando ormai sono usciti in pochissimi anni una raccolta di poesie, due saggi poetologici, radiodrammi e testi teatrali destinati a lasciare il segno come Insulti al pubblico, Kaspar, e inoltre un volume che riunisce queste opere, l’intervistatore non può fare a meno di chiedergli se egli si veda nella scia di Karl Kraus; Handke sottolinea invece la sua distanza rispetto a Kraus e in particolare al genere letterario della satira. Negli anni successivi, di cui si deve ricordare qui almeno Infelicità senza desideri (1972), un’opera semiautobiografica sul suicidio della madre, il suo successo si consolida, viene tradotto molto, in particolare in Francia, dove stabilisce la sua residenza in tre periodi diversi, definitivamente dal 1990. Una parte della sua ampia ricezione internazionale è dovuta anche alla collaborazione con Wim Wenders, in particolare per Il cielo sopra Berlino. Pure in Italia il teatro viene tradotto subito e poco dopo anche la narrativa. È impossibile fare qui un elenco dei suoi lavori: l’edizione in cassetta fatta da Suhrkamp nel 2018 (Handke-Bibliothek, 14 voll.), comprendente poesie, prosa, teatro, saggi, sceneggiature, diari (ma non le numerose traduzioni dal francese, dall’inglese e dal greco), si compone di 12.000 pagine! Un’opera immensa e poliedrica, una vita dedicata alla scrittura nel segno del “non dimenticare nulla” e “non inventare nulla”. Questi due obiettivi messi a fuoco in una lettera del giovane studente alla madre lo hanno guidato anche nei suoi tanto contestati e ‘scandalosi’ scritti sulle guerre nella ex-Jugoslavia, intorno ai quali l’attenzione dei media si è cristallizzata anche in occasione del Nobel; tutti si sentono autorizzati a partecipare a questa polemica, a vario titolo, anche solo per sentito dire e senza aver letto i testi. Qui basterà dire che Handke ha voluto contestare il discorso mediatico che vedeva tutto il male da una parte, condannando un popolo intero, i Serbi, al ruolo di cattivi, con argomentazioni che si possono definire di stampo razzista, senza analizzare le cause, mentre Handke vuole “non dimenticare nulla”.

Se è vero che un tema della sua opera è la paura, la paura esistenziale del singolo di fronte alla violenza del processo storico, da cui era stato traumatizzato da bambino, nelle sue scelte artistiche e professionali Handke ha scelto invece la linea coraggiosa di essere sempre controcorrente, fedele alla missione datasi fin dall’inizio, di mostrare tramite il linguaggio un potenziale non ancora realizzato nella realtà. E forse grazie al Nobel nuovi lettori e lettrici si sentiranno invitati a scoprire il suo ‘mondo’ (una parola molto handkiana) di testi così attuali.

Lascia un commento