Sette gemelli molto, molto eterozigoti

Indicati dai media come sorelle della Terra, o addirittura come suoi gemelli, sono i componenti di un sistema planetario scoperto nel 2015 e ufficialmente annunciato dalla NASA nel Febbraio 2017. Che si tratti di una notizia da “Edizione straordinaria!”, non c’è dubbio. Occorre più cautela invece su molte conclusioni tratte dai media. Tre di questi pianeti si trovano nella fascia detta abitabile, ossia con temperature di alcune decine di gradi centigradi, sono rocciosi ed hanno un’atmosfera, forse, con tracce d’acqua. Qualcuno ipotizza perfino dei mari. Insomma, ci sono speranze di qualche forma di vita? Calma: i pianeti ruotano attorno ad una stella fredda, Trappist-1, la cui temperatura superficiale è meno della metà di quella del Sole. Se i pianeti hanno una temperatura accettabile significa che ruotano molto vicini alla stella e di conseguenza, per le leggi di Keplero, il loro periodo di rotazione, ossia il loro “anno”, è brevissimo: infatti il più lento compie la sua orbita in una decina di giorni. Mercurio, per confronto, impiega tre mesi terrestri. Stagioni dunque di durata effimera? Neppure: la vicinanza alla stella, e quindi il forte campo gravitazionale, hanno provocato un fenomeno abbastanza comune in astronomia, che si chiama risonanza. Rotazione e rivoluzione hanno la stessa durata, sono sincronizzate e di conseguenza i pianeti volgono sempre la stessa faccia a Trappist-1. Esattamente come la Luna con la Terra. Le stagioni lassù, proprio non ci sono, e nemmeno i giorni. L’alternanza stagionale è solo uno dei parametri su cui si basa la vita come la nostra; occorrono anche un’opportuna composizione chimica dell’atmosfera, regolatori di temperatura come le correnti oceaniche, energia endogena e un grosso satellite. Tutte condizioni non verificate. Comunque potrebbero essersi sviluppate forme più semplici di vita, tipo quella batterica. La ricerca continuerà a lungo. I pianeti sono stati scoperti con osservazioni a bassa temperatura, grazie al telescopio orbitante Spitzer, che lavora nell’infrarosso, e si è impiegato il metodo dei transiti: nei casi fortunati in cui stella, pianeta e telescopio si trovano sullo stesso piano, lo strumento misura delle minime diminuzioni di luminosità periodiche, dell’ordine di qualche percento al massimo, dovute al transito del pianeta davanti alla stella. In pratica, si osservano delle microeclissi. E’ con questo metodo che è stata scoperta la maggior parte delle migliaia di esopianeti oggi conosciuti. Se l’individuazione dei pianeti è cosa recentissima, la stella Trappist-1 invece era nota dal 1999. L’etimologia del nome è proprio quella che ci si immagina e una semplice ricerca in rete ne spiega il motivo. Questo tipo di stella si chiama nana rossa, ed è molto comune: circa 3/4 delle stelle standard della Via Lattea sono in tale classe spettrale, detta M. All’interno della classe, una graduatoria indica la luminosità. Per Trappist-1 il valore è 8, uno dei più bassi. Sappiamo anche che la nana rossa ha un volume uguale a un millesimo di quello solare, quindi è grande circa come Giove, ma la sua massa è ben un ottavo del Sole: ossia è molto più densa, al confronto.
La distanza, quasi 40 anni-luce, colloca il sistema stellare nella prossimità della Terra, ma di fatto resta un valore enorme su scala umana. Grosso modo, ogni anno-luce richiederà alle future astronavi superveloci (ancora da progettare) 3000 anni di viaggio: un conto è identificare, eventualmente, una forma di vita, un altro quello di entrare in contatto con loro. Comunque Trappist-1 e il suo sistema sono pronti a venirci incontro, in senso letterale: si avvicina al sistema solare ad oltre 50 km al secondo, quindi nel tempo impiegato a leggere queste righe, ha percorso una distanza circa uguale al diametro terrestre. Mica poco.

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