Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a 25 anni dalla morte

Potremmo definirlo annus horribilis: il 1992 l’anno di tangentopoli, della fine del sistema dei partiti della prima Repubblica, l’anno delle stragi di mafia.

Era il 30 gennaio del 1992 quando il maxi processo, celebratosi a Palermo in prima istanza nel biennio 1986-87, arrivò al giudizio della Suprema Corte che riconfermò i 19 ergastoli inflitti alla cupola di Cosa nostra.  Il clima, ancora una volta, stava per cambiare. Il Paese si preparava a vivere uno tra i periodi più bui degli ultimi decenni. La pax mafiosa, stabilizzata dopo la seconda guerra di mafia degli anni ’80, sarebbe venuta meno. Cosa nostra si preparava a sferrare un attacco senza precedenti contro gli uomini delle istituzioni che avevano speso la vita nella lotta alla mafia.

Alle ore 18 del 23 maggio 1992 il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta morirono per un’esplosione potentissima di cinque quintali di tritolo posizionati in un tunnel scavato sotto il raccordo autostradale all’altezza del bivio di Capaci in direzione di Palermo. Ad azionare il telecomando fu uno degli uomini più fidati di Riina, Giovanni Brusca. Falcone era diventato un personaggio ingombrante per Riina che mal sopportava le condanne definitive del maxi processo e soprattutto voleva impedire la sua nomina a procuratore nazionale antimafia. Nel 2002, la Corte di Cassazione condannò a 24 ergastoli il gotha di Cosa nostra come autori della strage, Riina compreso.

Il 19 luglio 1992, 58 giorni dopo la strage di Capaci, in via d’Amelio, a Palermo, un’esplosione uccise l’amico fraterno e collega di Falcone, Paolo Borsellino; con lui morirono cinque agenti della scorta. Su Borsellino sono stati istruiti tre processi poi ribaltati dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza: verità considerate inconfutabili per 18 anni si sgretolarono. Gaspare Spatuzza, affiliato alla famiglia di Brancaccio comandata da Giuseppe Graviano, arrestato nel 1997 e condannato all’ergastolo in via definitiva per diversi omicidi, fra i quali quello di don Pino Puglisi, decide, nel 2008, di collaborare con la giustizia facendo luce sui molti misteri di quei tragici anni. Egli dichiara, infatti, di avere organizzato la strage e di avere ricevuto l’incarico dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Dopo l’azzeramento dei primi tre processi, il processo Borsellino quater è ancora in corso. La sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta da Antonio Balsamo, giunge il 20 aprile 2017, ma siamo solo all’inizio.

Le stragi di Falcone e Borsellino sono state per le generazioni che sono cresciute nel ricordo tragico di quei giorni, uno spartiacque: hanno determinato la formazione di una nuova consapevolezza antimafia, che potremmo definire “militante”, e soprattutto hanno consolidato la convinzione che il fenomeno mafioso può essere sconfitto. Questo è la migliore eredità del sacrificio di questi veri eroi nazionali.

Questo profondo mutamento di consapevolezza civile, d’altra parte, ha concorso, dopo le stragi del 1993, all’inabissamento della mafia siciliana. Ora essa preferisce operare sottotraccia, in silenzio, senza gesti clamorosi, anche per i continui arresti e le indagini delle forze dell’ordine e della magistratura. Ciononostante, Matteo Messina Denaro, ultimo grande capo di Cosa Nostra, è ancora latitante. E’ ricercato dal 1993; non è mai stato arrestato; non si hanno le sue impronte digitali e sue foto recenti. E’ un fantasma che si aggira in Sicilia e per la cui cattura lo stato ha impegnato centinaia di uomini e cospicue risorse che hanno portato a decine e decine di arresti, anche di insospettabili; ma di lui neanche l’ombra.  “Iddu”, come lo chiamano i suoi uomini, non uccide più; fa affari tramite prestanome nelle più svariate attività economiche dall’energia rinnovabile, soprattutto l’eolico, alle opere pubbliche oltre alle estorsioni e ai tradizionali affari illeciti.

Anche le altre consorterie mafiose hanno subito la stessa evoluzione. La ‘ndrangheta, oggi la mafia più potente e ricca del mondo che vanta presenze in tutti i continenti, è esemplificativa di questo mix di commistioni fra lecito e illecito, fra colletti bianchi e mafiosi affiliati. E’ di qualche giorno fa la notizia dei numerosi arresti ad Isola Capo Rizzuto (KR), nell’ambito dell’indagine condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, coordinata da Nicola Gratteri. Sono emerse infiltrazioni delle cosche nel centro di accoglienza dove vengono gestiti milioni di euro conferiti dall’Unione europea per sfamare i profughi. Quei soldi, per mano di colletti bianchi e preti collusi con le cosche, venivano investiti in acquisti d’immobili, macchine di lusso, barche. E’ uno spaccato particolarmente odioso della criminalità mafiosa che dimostra lo sviluppo del fenomeno in ambiti lontani da quelli tradizionali e sui quali va tenuta alta l’attenzione, adeguando e specializzando sempre di più le forze in campo. Le opportunità di affari e di illecito arricchimento delle organizzazioni mafiose si moltiplicano.

Nella lotta al fenomeno mafioso, pur divenuto assai più silente, vale oggi, dopo 25 anni, quanto scritto da Falcone alla vigilia del suo assassinio: “si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno”.  Egli era ormai un uomo isolato; lasciava Palermo per Roma per andare a coprire l’incarico offertogli dal ministro Martelli come Direttore degli affari penali del Ministero di grazia e giustizia. In quei mesi fu il principale promotore della Dia (Direzione investigativa antimafia), istituita con il decreto legge del 29 ottobre 1991, e della Dna (Direzione nazionale antimafia) costituita il 20 novembre 1991. Dal 2015 la Dna ha assunto anche la competenza della trattazione di procedimenti in materia di terrorismo. Lo stato si dotava di mezzi nuovi e più efficaci nella lotta contro la mafia, grazie a Falcone. Dopo 25 anni la lotta è ancora tutta aperta.

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