Pearl Harbor. Ottant’anni dopo

Quello che è stato definito, a posteriori, il secolo americano avrebbe potuto iniziare il 19 marzo 1917, quando la marina tedesca affondò il mercantile americano Vigilantia, con tutto il suo equipaggio. Era l’applicazione della dottrina della guerra sottomarina illimitata adottata dallo Stato maggiore tedesco nel febbraio precedente. Ormai i due terzi delle esportazioni degli Stati Uniti prendevano la rotta dell’Atlantico dirette in Francia o in Inghilterra, mentre varie e primarie istituzioni finanziarie americane avevano aperto linee di credito a sostegno della guerra dei paesi dell’Intesa. Gli Stati Uniti non potevano non scendere in guerra a sostegno di questo fronte per tutelare i propri interessi e, con essi, il principio della libertà dei mari e del commercio mondiale. Il Congresso deliberò la guerra il 2 aprile, ma solo nel gennaio 1918 varò i famosi 14 punti con i quali si definiva la cornice ideale della guerra americana. In quel documento era disegnato, in sintesi, il mondo come lo pensavano gli Stati Uniti. Molti, a ragione, comprese le diplomazie delle potenze dell’Intesa e tanta parte dell’opinione pubblica, pensarono che fosse iniziato il secolo americano.

Gli Stati Uniti furono determinanti per la vittoria. Lo furono ancor più per il sostegno finanziario e per le forniture, anche alimentari, erogate ai paesi del fronte occidentale che non per l’impegno militare. Tutti divennero wilsoniani, dopo la guerra, in Europa, almeno a parole. Poi avvenne l’imprevisto. I democratici che con Wilson avevano vinto la guerra furono sconfitti alle elezioni presidenziali del novembre 1920. Wilson già infermo per un ictus, forse conseguenza della spagnola contratta in Europa, non riuscì a far vincere il candidato Cox, che correva con un vice di grande futuro, Franklin D. Roosevelt. Stravinse il repubblicano Harding conquistando 404 grandi elettori contro i 127 di Cox. La vittoria del candidato repubblicano era stata acquisita sull’onda del neoisolazionismo americano. L’urto della guerra e del coinvolgimento degli Stati Uniti nelle difficili trattative di pace, che comunque non soddisfacevano l’opinione pubblica americana, alimentarono il sentimento di rigetto. Riemergevano i temi, insiti nella grande nazione che si era costruita nel melting pot della frontiera, della superiorità morale americana verso i corrotti e cinici europei e la paura verso il bolscevismo che minacciava di penetrare nella società americana. La soluzione, certo miope, ma di grande impatto emotivo, fu ritenuta essere la nuova chiusura degli Stati Uniti nella american fortress, difesa di grandi oceani. Il secolo americano si era aperto e richiuso in soli tre anni. Era stata una falsa partenza.

L’attacco giapponese e l’annientamento della flotta del Pacifico a Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, giusto ottant’anni fa, divenne quindi un brusco e inaspettato risveglio. Nonostante la svolta democratica, con l’elezione di Roosevelt alla presidenza nel novembre 1932, i sentimenti isolazionisti dell’opinione pubblica erano nettamente prevalenti. Il presidente aveva promosso con gradualità e prudenza l’impegno americano nelle relazioni internazionali volto a contenere l’aggressione delle dittature europee e del Giappone. Ne fu un tipico esempio il “discorso della quarantena”, pronunciato a Chicago il 5 ottobre 1937, che evocava il necessario isolamento delle potenze aggressive. Ciò implicava un impegno diretto degli Stati Uniti nel contenimento. Le reazioni furono spesso critiche. In privata sede, lo stesso segretario di Stato, Cordell Hull, ritenne il discorso inopportuno. Due anni più tardi, dopo l’attacco tedesco alla Polonia e lo scoppio della guerra in Europa, il sondaggio Gallup volto ad accertare gli orientamenti dell’opinione americana registrò di nuovo un approccio favorevole alla neutralità. Gli Stati Uniti dovevano aiutare Francia e Regno Unito contro la Germania, ma astenendosi dall’intervento diretto. Roosevelt era bloccato.

Solo l’attacco diretto giapponese permise al presidente di portare gli Stati Uniti in guerra. Era convinzione dell’ammiraglio Yamamoto che la distruzione della flotta degli Stati Uniti del Pacifico ne avrebbe impedito sine die la riconquista. In realtà, come lo stesso ammiraglio aveva temuto, quel 7 dicembre 1941 i giapponesi avevano “svegliato l’orso”. Avevano dato inizio al secolo americano. In sei mesi, gli Stati Uniti ricostruirono tutto il tonnellaggio affondato dai cacciabombardieri giapponesi e nel giugno 1942 con la battaglia delle Midway avviarono la ripresa del controllo del Pacifico.

La conferenza di Bretton Woods (New Hamphire) del luglio 1944, che riunì i delegati dei 44 stati della grande alleanza contro le potenze dell’Asse, configurò un sistema monetario e, di conseguenza, commerciale mondiale basato sul dollaro come moneta di riferimento per tutte le monete del mondo, fissando il cambio fisso oro/dollaro (34 dollari per un’oncia d’oro). Gli accordi prefiguravano un governo finanziario del mondo facente leva sulla diplomazia del dollaro. S’intendeva creare un’area globale di libero scambio basata sulla certezza delle ragioni di cambio delle varie monete col dollaro e su politiche economiche convergenti che si estendesse a tutto il pianeta. Il sistema si basava sul presupposto che il Pil degli Stati Uniti copriva da solo il 60% della ricchezza del mondo. Gli Stati Uniti definivano il futuro del mondo sul terreno a loro più conosciuto e famigliare, quello economico e commerciale. La costruzione di un grande sistema di alleanze politiche permanenti, estraneo alla cultura e alla tradizione americana e guardato con avversione da tanta parte dell’opinione pubblica interna, sarebbe stato il frutto di eventi post bellici imprevedibili nel 1944.

In realtà, il governo monetario del mondo, pensato dal Tesoro americano nel 1944 come entità che potesse vivere di vita autonoma, senza il sostegno politico, si scontrò con la guerra fredda. Il sistema di Bretton Woods non valse per tutto il pianeta, come nelle intenzioni, ma solo per quella parte, in Occidente e in Oriente, ove la leadership politica americana dominava. La politica riprendeva il primato sull’economia.

Poi, nell’agosto del 1971, l’abbandono unilaterale da parte del presidente Nixon della parità fissa oro/dollaro mise nel cassetto della storia Bretton Woods. Ciononostante, il dollaro continuò ad essere moneta di riferimento degli scambi internazionali: non lo poteva sostituire il rublo, per la debolezza dell’economia sovietica; né il Renmimbi per la profonda arretratezza cinese; mentre la Comunità europea fu spinta a cercare un sistema di parità interne che garantisse certezze al commercio dell’area comunitaria.

Cinquant’anni dopo quel fatidico 14 agosto ’71, il quadro del sistema monetario mondiale è cambiato per l’emersione cinese e per la nascita dell’euro. Ma il dollaro continua ad essere la moneta di riferimento per le transazioni commerciali internazionali delle materie prime e dell’energia. Soprattutto, gli Stati Uniti mantengono il primato sul versante delle nuove tecnologie e dell’Information economy. Il Pil degli Stati Uniti è sceso in termini relativi, rispetto al Pil del mondo, al 18% e i sintomi di disimpegno politico dal governo del mondo sono manifesti. Ma nessuno stato continente dimostra pari capacità inventive e creative sul versante delle tecnologie d’avanguardia. Nonostante tutto, viviamo ancora nel secolo americano. Quello inaugurato (involontariamente) dal Giappone con l’attacco a Pearl Harbor, ottant’anni fa.

Lascia un commento