Il Nobel per la letteratura a Louise Glück

L’Accademia di Svezia ha assegnato il premio Nobel per la letteratura 2020 a Louise Glück, riconoscendo “la sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende l’esistenza individuale esperienza universale”. È questa una motivazione che mi lascia perplessa, perché potrebbe essere ‘accostata’ ad altre scrittrici, ad altri scrittori di lingue e culture diverse, sia occidentali che orientali.

Nata nel 1943 a New York da genitori ebrei di origine ungherese, L.G. ha ricevuto riconoscimenti, premi, onorificenze di grande prestigio per i suoi volumi di poesia e di critica letteraria. Dopo l’annuncio del Nobel, le sue opere sono andate esaurite ovunque nel giro di poche ore e, in particolare, quelle tradotte con rara perizia da Massimo Bacigalupo, L’iris selvatico (Giano, 2003) e Averno (Dante & Descartes, 2019).

Fin qui ho trascritto poco più di quanto si può trovare sul web e, adesso, desidero dedicarmi alle mie riflessioni personali su L.G., che avrei potuto tracciare anche prima del conferimento del Nobel, visti i miei interessi per la poesia contemporanea.

C’è un verso di L.G., “le bacche rosse del sorbo selvatico”, dal quale mi lascio talvolta trasportare per giungere ad una meta che assomiglia al giardino del Cantico dei Cantici o all’Eden stesso, che secondo l’etimologia ebraica, è “il luogo delizioso”, “il luogo del piacere”. Lo ripeto insieme ad altri due versi, “Guardiamo il mondo una volta da fanciulli, / il resto è memoria”, e li collego ai numerosi personaggi che diventano i protagonisti nell’opera di L.G. – Ulisse, Penelope, Achille, Sisifo, Persefone, Cupido e Psiche, Dafne e Apollo, Mosè, Giuseppe e David, solo per citarne alcuni. Mi sembra di trovarmi di fronte ad una revisione/riscrittura di diversi miti biblici e classici, ovvero a ciò che chiamiamo “revisionist mythmaking” e che io, pensando alla cultura ebraica entro la quale L.G. si è formata, definirei una narrazione in forma di midrash.

 Mi fermo per riflettere sul significato di midrash: in senso stretto indica una serie di regole ermeneutiche caratteristiche dello studio rabbinico del testo biblico; in senso più ampio, sta ad indicare la raccolta – meglio, le raccolte – di queste interpretazioni omiletiche, dove si mescolano parabole, racconti, leggende. Inoltre se si tiene presente che midrash deriva dalla radice d-r-sh che significa ‘ricercare’, ‘interpretare’, ‘investigare’ il senso del testo, posso affermare che una parte della poesia di L.G. vuole essere una complessa ‘ricerca’ degli elementi femminili perduti nella memoria (la ‘memoria’ del verso citato sopra) e una ‘interpretazione’ del significato di questa perdita.

È un tema a cui mi sono dedicata spesso nei miei studi e che ho ripreso anche quando, anni fa, partecipai ad un convegno sulla scrittura di genere e pubblicai due saggi pressoché identici – uno in inglese sulla rivista Textus, “Personal diagnosis and social diagnosis ‘attorno a questo corpo dalle mille paludi’” (2000), e uno in italiano, “Poesia del corpo malato” per l’editore Olschki (2001). Allora, dopo molte incertezze, decisi di escludere i versi sul tema dell’anoressia nervosa (di cui L.G. era stata vittima) che compaiono all’interno della sua opera. Mi sembravano lontani dalle composizioni di Dannie Abse, Deena Metzger, Amy Ling, Marylin Hacker, Paul Monette, Alicia Ostriker che lì citavo, interpretavo, accomunavo. Mi sembravano lontani dalle loro “paludi”, dall’AIDS e dal cancro, anche dal carcinoma al seno di Ostriker che per prima – come critica letteraria – mi aveva fatto conoscere l’opera di L.G. tramite il volume Stealing the Language. The Emergence of Women’s Poetry in America (1986), includendola nel capitolo “Divided selves: the quest for identity”.

Oggi le poesie di L.G. mi appaiono più vicine alle “mille paludi” (seguitando a citare il verso di Amelia Rosselli), anche se, ai confini delle stesse paludi, esse si caricano di fiori, di corolle e colori – di narcisi, gigli, tulipani – che verranno comunque sommersi quando giungerà il gelo descritto nell’ultima parte di “Harvest”:

“And then the frost comes; there’s no more question of harvest. / The snow begins; the pretense of life ends. / The earth is white now; the fields shine when the moon rises. / I sit at the bedroom window, watching the snow fall. / The earth is like a mirror: / Calm meeting calm, detachment meeting detachment. / What lives, lives underground. / What dies, dies without struggle”.

“E poi giunge il gelo; del raccolto più non si parla. / Inizia la neve; finisce la finzione della vita. / Adesso la terra è bianca; splendono i campi al sorgere della luna./ Siedo alla finestra di camera io, guardo la neve cadere. / Come specchio è la terra: / La calma incontra la calma, il distacco incontra il distacco. / Ciò che vive, sottoterra vive. / Ciò che muore, senza lotta muore”.

Sono versi con i quali mi piace concludere questa pagina perché, grazie alle efficaci scelte stilistiche – assonanze, allitterazioni e ripetizioni – trasmettono brividi anche a noi, soprattutto all’anima.

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