La Germania a trent’anni dalla riunificazione

Si disse che sarebbe stata necessaria una generazione per cancellare i resti della divisione della Germania nell’età della guerra fredda. Non è stato così. Se ponderiamo in trent’anni la lunghezza di una generazione, e tanti ne sono passati dal quel 3 ottobre 1990, data ufficiale della riunificazione, possiamo dire che ne sarà necessaria un’altra o forse altre due per raggiungere lo scopo. I resti o, se vogliamo, le macerie della DDR si vedono ancora. Si trovano qua e là quelle materiali, ma sono ancor più evidenti quelli culturali. I simboli odiosi di quel passato, soprattutto per i berlinesi, come il muro, sono stati annientati. Si fa davvero fatica a trovarne traccia. Del famoso Check point Charlie, alla Friedrichstraße, neanche l’ombra. Si vuole dimenticare. Ma le differenze anche economiche restano profonde.

Allora quella riunificazione, fatta in fretta e furia dal cancelliere Kohl, quasi a voler cogliere l’attimo fuggente, prima che fosse troppo tardi, spaventò tanti. Terrorizzò il leader dell’Unione Sovietica, Gorbačëv, che avvertì il sopraggiungere della fine politica, sua e dell’Unione Sovietica, ma niente poteva fare per fermare il corso della storia. Ma spaventò anche i leader dell’Europa occidentale. La premier britannica  Thatcher, che non era usa a giri di parole, si dichiarò esplicitamente contraria. Il presidente Mitterrand interpretò i sentimenti di gran parte dei francesi esprimendo tutta la sua perplessità sui rischi che comportava la rinascita di una potente Germania nel cuore d’Europa. Il nostro presidente del Consiglio Andreotti, sempre misuratissimo nelle parole, arrivò a dire che tanto amore portavamo alla Germania da preferire di averne due, suggerendo quasi  che se uno esercitava il ruolo di moglie, l’altra potesse svolgere bene quello dell’amante. Furono fulmini e saette. Con proteste dell’ambasciatore tedesco a Roma e inevitabili precisazioni della nostra diplomazia sul “fraintendimento”.

In realtà, nel corso del XX secolo la Germania aveva subito divisioni territoriali di diverso tipo per ben sessantacinque anni. Prima, dopo la Grande guerra, il diktat di Versailles aveva imposto il corridoio di Danzica, che divideva Prussia occidentale e Prussia orientale, per garantire lo sbocco al mare alla rinata Polonia. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, il corpo territoriale della Germania era stato tagliato dallo spostamento a ovest della Polonia con assimilazione di territori tedeschi e forzata deportazione a ovest di milioni di tedeschi, oltre che con la creazione della Repubblica popolare tedesca, stato satellite dell’URSS. Inoltre, sulla “non soluzione” della questione della Germania e sul destino di Berlino era scaturita la guerra fredda. Nell’immaginario collettivo europeo si era consolidata nel tempo di più generazioni questa dicotomia: quando la Germania è divisa l’Europa è in pace. Quando la Germania è unita l’Europa ne subisce l’aggressione. Il sentimento che si era consolidato in Francia dopo la sconfitta di Sedan e la caduta del Secondo Impero (2 settembre 1870) è divenuto nel XX secolo sentimento diffuso nel vecchio continente.

La reazione degli Europei all’unificazione della Germania, voluta strenuamente dal cancelliere Kohl e propiziata dal presidente Bush sr, fu la conferenza di Maastricht e il relativo Trattato (1992) istitutivo dell’Unione Europea. Bisognava allungare con più acqua il vino tedesco per contenere il futuro, prossimo rafforzamento della Germania unita, dotata di una massa critica (economica, demografica, geopolitica) largamente superiore a qualsiasi altro stato nazionale europeo. Alla corsa all’unificazione tedesca seguì quindi in stretta conseguenza la corsa all’accelerazione nella costruzione dell’Unione Europea. Non fu un processo “per”, che riscoprisse gli ideali e i propositi di Adenauer, Schumann e De Gasperi dopo la fine della guerra fredda. Fu piuttosto un processo largamente stimolato da propositi “contro”: ossia contro i rischi di egemonia tedesca. Il tutto condito da una grande illusione che ricorreva nell’ultimo Mitterrand: che la guida morale e politica dell’Europa restasse in mano francese. Ci aveva creduto De Gaulle, in tempi nei quali l’asse Parigi Bonn scontava la divisione della Germania, e tornava a crederci Mitterrand dovendo fare buon viso a cattivo gioco, quando ormai i presupposti gollisti erano venuti meno.

Ma questa linea conteneva una contraddizione di fondo. L’euro che veniva disegnato a Maastricht era ritagliato sul marco tedesco. I criteri delle politiche di bilancio e finanziarie adottati a Maastricht erano coerenti con una dura politica deflazionistica necessaria alla Germania per contenere gli effetti inflazionistici della riunificazione. L’Italia ne ha pagato il fio in quella drammatica estate del 1992 quando abbiamo rischiato il default. Anche la dislocazione a Francoforte della neonata Banca centrale europea (1998) aveva un valore simbolico. Non si voleva la guida politica della Germania, ma si accettava il modello di politica monetaria. Quando l’Unione Europea ha dovuto affrontare la prima grande crisi finanziaria di uno stato membro, la Grecia, la cancelliera Merkel ha trasposto sull’economia greca i criteri di gestione tedeschi, portando quel paese al disastro. È emersa con chiarezza l’assenza di una visione politica dell’Unione; è risultato evidente che la Francia che aveva avuto la pretesa di detenerla, ne era priva o non aveva la capacità di svilupparla. Ma soprattutto divenne chiaro che la scissione fra responsabilità politica e responsabilità economica nella gestione dell’Unione è o velleitaria o dannosa.

È comprensibile, dati i precedenti storici, che la Germania sia potenza riluttante ad assumere la responsabilità della guida politica dell’Unione, che comunque dovrà essere collegiale. Ma non sono ammissibili scissioni di responsabilità fra politica ed economia. Può piacere o meno, ma, come avrebbe detto De Gaulle, politique d’abord. È necessaria una visione di lungo periodo e complessiva dei destini dell’Unione e la Germania non può non detenere una leadership. Forse qualche spiraglio in questo senso si è aperto con la nuova Commissione. Forse Ursula von der Leyen costituisce la svolta. Comunque, ce lo dobbiamo augurare.

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