10 giugno 1940

Cosa resta, ottant’anni dopo, degli eventi legati a questa data infausta? Vorremmo potere dire niente. Vorremmo potere fare nostro l’heri dicebamus di Benedetto Croce dopo il crollo del regime, dopo la Liberazione. Purtroppo non è così. Quello fu il giorno dell’infamia. Scendevamo in guerra dopo avere verificato e accertato che la Francia era stata piegata dalle armate germaniche. L’opportunismo si univa alla vigliaccheria. Scendevamo in guerra convinti dell’impotenza dell’Inghilterra. La mossa non era neppure coperta dall’ipocrisia e dalla normale falsità della comunicazione politica. Datemi tremila morti per sedere al tavolo della pace, disse il duce. In quei tremila morti si raccoglie in sintesi tutto il male che la politica può fare al paese che ha la pretesa di guidare. Il disprezzo della vita umana; il sacrificio invocato in nome di qualcosa che, per di più, è un disvalore. Debbono morire dei giovani, pochi o tanti, per spartire un bottino di guerra. Su tutto e su tutti sta l’interesse nazionale. Ma qual è e cos’è l’interesse nazionale? Dove si cela e chi lo può disvelare? È abbattere con un ultimo risibile colpo un nemico inesistente che è già sconfitto per concorrere allo spoglio del bottino? È insegnare a giovani e vecchi che l’unica dimensione dell’esistenza è il dominio e la prevaricazione che nega ad altri il diritto alla vita? È questa la pedagogia dichiarata dalla politica?

La nazione era divenuta un archetipo. Non c’era niente al di sotto di essa; non c’era niente al di sopra. Essa era la dimensione assoluta cui tutto e tutti si piegano, fuorché il capo autolegittimato ad interpretarne le ragioni. Da storici si può discutere all’infinito entrando nel merito, come è giusto fare. Allora il giudizio si cala sul calcolo delle opportunità. Magari sull’errore dell’aver disatteso il messaggio di Churchill che anticipava al duce la resistenza ad oltranza e il probabile soccorso dell’America. Allora si valuta la superficialità d’aver disatteso i messaggi dello Stato maggiore sull’impreparazione dell’esercito dopo anni di guerra ininterrotta, a partire dalla guerra d’Etiopia nel 1935 per continuare con l’impegno italiano nella guerra civile spagnola. Allora si registra e si analizza nel fronte interno delle gerarchie fasciste lo schierarsi dei filo germanici e dei filo britannici, magari riconducendoli alle diverse anime del fascismo e si verifica il prevalere dei primi per volontà del duce.

È mestiere dello storico analizzare le dinamiche politiche di una dittatura con aspirazioni totalitarie come quella fascista sullo scorcio del secondo decennio di dominio. Come lo è studiare l’eco dell’opinione pubblica come filtrata dalle forze di polizia e dagli informatori per comprendere la capacità di penetrazione e di manipolazione della propaganda del regime. Oggetto della storia sono le complesse evoluzioni dei processi e le loro intersezioni.

Ma al di sopra di tutto e di tutti, certo constatando che se il duce fosse stato più prudente, magari ancor più opportunisticamente attendista, avrebbe risparmiato all’Italia lutti e sciagure incommensurabili, resta la dimensione umana e morale di un miserabile. È vero che il giudizio morale non deve confondersi col giudizio storico. Ma gli esseri umani sono esseri finalizzati e la ragione della politica è quella delle scelte e degli indirizzi che hanno una dimensione prettamente morale. Se le scelte di un dittatore come di un ceto politico, anche democratico, sono avulse da qualsiasi apprezzamento morale positivo la condanna della storia è essenziale, prescinde da ogni calcolo di opportunità. Vale e resta il fine della conoscenza, ma solo a memento dei posteri.

Dunque, tornando a quanto dicevo in esordio, il 10 giugno 1940, ottant’anni dopo, è la ricorrenza di un evento relegato e chiuso nel passato? Direi di no, purtroppo. Non solo perché dopo tre generazioni ci portiamo ancora addosso le conseguenze di quella infamia, riflesse in un paese che a fatica riesce a legittimarsi in Europa, a divenire credibile, ma perché si torna a parlare di anti Europa e di “sacro” interesse nazionale, sotto le mentite spoglie del sovranismo: un neologismo coniato per non fare ricorso al tradizionale e veritiero termine di nazionalismo. Tanto è stato il danno che si ha paura anche della parola. Allora se ne inventa un’altra per nascondere la verità della tragedia italiana del XX secolo che ci portiamo ancora addosso.

Dunque, fra le sacre memorie nazionali evocate da date fatidiche, il 25 aprile, la Liberazione, il 2 giugno, la Repubblica perché occultare il 10 giugno, l’infamia? Anche questa fa parte della nostra storia e deve restare a ricordo perenne.

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