L’AMICIZIA PLATONICA

Premessa. Lo studio della philia[1] nel mondo greco classico rappresenta un modo per decrittare le relazioni interpersonali ed i valori che orientano il comportamento privato e pubblico tra il V ed il IV secolo a.C. Una riflessione sul tema agevola non poco la ricostruzione storico-sociologica di una cultura urbana espressa dalle classi sociali di rango superiore e non solo, vale a dire l’aristocrazia e la borghesia ateniese, avendo riguardo ai suoi segmenti più giovani. Un dato significativo è che si viene introdotti – tramite un percorso filosofico – alla dimensione eteroclita delle forme di amicizia e, dunque, del loro significato culturale ed identitario nell’antica Grecia. Ma il senso di una rilettura del pensiero di filosofi come Platone e Aristotele va ben al di là di una ricostruzione in chiave di sociologia culturale di una forma di legame sociale che attraversa la storia dell’umanità. Va sottolineato comunque preliminarmente che il tema dell’amicizia si propone qui con assai pochi   punti di contatto con il nostro concetto moderno di amicizia e soprattutto con il nostro modo di analizzarlo.

Sotto un profilo logico-argomentativo la trattazione di Platone (427-347 a.C. circa), con il suo dialogo intitolato Liside, è la prima ascrivibile ad un autore importante in modo storicamente ormai certo. In genere, si è inclini a collocare il Liside tra i dialoghi platonici giovanili e ad accostarlo alle indagini socratiche sulla virtù[2]. C’è chi lo situa prima della morte di Socrate avvenuta nel 399 a.C.[3] oppure chi congettura che sia stato composto all’epoca del primo viaggio di Platone a Siracusa (388 a.C.). Per assonanza tematica, poi, un’altra corrente di studiosi – minoritaria – lo pone tra i dialoghi della maturità e specificamente vicino al Fedro e al Simposio[4]. In sostanza una datazione precisa non è ancora possibile; e forse la questione non è poi così rilevante. Va invece segnalato preliminarmente che nel Liside si trattano concetti importanti del sistema di pensiero platonico tra i quali il concetto di parousia e quelli di oikeion e di proton philon.

Già in Omero si incontra l’aggettivo philos, adottato col significato di “caro” e di “amato”, un attributo che viene riferitprincipalmente a persone legate reciprocamente da una relazione di parentela, principalmente ci   si richiama alle relazioni tra marito e moglie e a quelle tra genitori e figli, ma non solo. Si diceva philos anche di   chi apparteneva alla famiglia, anche se per il legame di consanguineità si adottava pure il termine oikeios. In Omero si parla della philia prescindendo dalla dimensione emozionale e sentimentale: il termine esprime una sinergia tra parti che si aiutano vicendevolmente come conseguenza naturale dell’appartenenza ad uno stesso gruppo primario. Questo stesso intreccio lo si ritrova nel Liside ove la philia si collega all’oikeiotes vale da dire alla affinità data dalla parentela. La quale ultima   condizione sembrerebbe esser concepita come una possibile causa della prima.

Il termine philia ha un territorio semantico assai più ampio di quello coperto dalla nostra “amicizia” anche se, naturalmente, la include concependola come   un rapporto basato su varie forme di affetto, insieme alla dimensione amorosa. Designa però anche una gamma di relazioni sia interpersonali di prossimità familiare sia un insieme di legami associativi politici, religiosi, economici. Il concetto di philia secondo Hans Georg Gadamer «comprende tutte le forme di convivenza umana, le relazioni d’affari come l’esser compagni in guerra, il lavorare insieme come le forme di vita del matrimonio, della formazione sociale di gruppi e della costituzione di partiti politici, in breve tutto il complesso della vita umana comunitaria»[5]. La philia si propone come una categoria che abbraccia un insieme esteso di rapporti tra i soggetti legati tra loro sia da vincoli familiari (genitori, figli, parenti) sia dal legame amoroso. Al tempo stesso rappresenta una risorsa morale che colora le relazioni intersoggettive di aspetti speciali come la benevolenza. Il dato che però specifica forse maggiormente la natura della philia greca è la sua pervasività sia nel campo delle relazioni private sia nel contesto delle relazioni pubbliche. L’amicizia sostiene, infatti, persino il buon governo delle città come meglio si dirà nelle pagine successive.  La venatura tra privato e pubblico che connota il concetto di philia nel mondo greco classico non può, tuttavia, essere banalmente criticata da noi moderni. Essa si associa ad una forte propensione alla collaborazione sociale in vista di una finalità comune. Dunque si tratterebbe di una propensione, di un dato antropologico essenziale ad una forma mentis che ormai ci è quasi totalmente estranea stanti i processi di mutamento in atto nel mondo sociale occidentale caratterizzato da un diffuso processo di urbanizzazione che si accompagna al dissolvimento delle comunità locali e dunque al progressivo sfaldamento delle basi sociali primarie. Si tratta di una macrodinamica che la globalizzazione ha portato alle estreme conseguenze.   Questa forma mentis, invece radicata nella polis greca, richiama aspetti culturali cruciali come quello dell’ospitalità e di altre forme di solidarietà e di apertura sociale che l’individualismo esasperato della mentalità occidentale contemporanea sta tristemente soffocando. È però soprattutto opportuno ricordare che Socrate aveva collocato l’amicizia al centro della sua esperienza di vita come filosofo, attribuendogli un ruolo morale imprescindibile nei rapporti umani. Platone con il Liside propone per la prima volta la necessità di riflettere in modo focalizzato sulle cause e sull’essenza della philia, pur accostandola, problematicamente, al concetto di eros. Va anche ricordato che una parte consistente della critica non solo ha considerato il Liside un’opera minore ma lo ha valutato come una specie di premessa di un dialogo platonico successivo, il Simposio, con la conseguenza che la sovrapposizione tra le due tematiche – philia ed eros– ha complicato la riflessione su due dimensioni ‘sentimentali’ proposte come interdipendenti.  Non per caso Giovanni Reale quando analizza l’«erotica platonica» e quando si sofferma sulla dottrina della philia e dell’eros parla di un «puzzle».  Come meglio si dirà infra, la philia, con la sua componente di razionalità, rappresenta l’inclinazione al Bene mentre l’eros rappresenta l’inclinazione al Bello. Entrambi sono mossi dalla epithymia cioè dal desiderio. La parola ἐπιθυμία allude al desiderio concepito nella sua forma essenziale come un’aspirazione che reclama un soddisfacimento immediato. Il termine βούλομαι, cui Platone ricorre nel Simposio quando argomenta sulla tensione tra carenza e desiderio e quando teorizza sulla natura di eros, allude, invece, ad una forma di desiderio che reclama il possesso stabile e proiettato anche nel futuro di una cosa di cui si è privi. Il concetto di βούλομαι include un’inclinazione riflessiva del desiderio che è assente nel termine ἐπιθυμία.  Esiste una gradazione del desiderio che vede al gradino inferiore l’ἐπιθυμία che esprime la passione fisica per l’altro. Successivamente si passa per il gradino intermedio di eros, intriso di una quota minore ma utile di razionalità, e si giunge al gradino superiore della philia in quanto amore puro per la sapienza che soddisfa la parte nobile, maggiormente razionale, dell’anima. Nel gradino più alto di questo percorso si intrecciano sovrapponendosi Bene e sapienza.

La trattazione platonica si collega  senza dubbio a quella pitagorica e considera il parallelismo tra philia umana e philia cosmica. Platone fa, tuttavia, rispetto al Pitagorismo un passo avanti nel senso che riflette sull’esistenza di un principio generale che dia senso sia al rapporto tra soggetti sia al cosmo: questo principio viene individuato, come si vedrà, nel Primo Amico (πρῶτον φίλον) cioè in una forma di amicizia finalizzata al Bene. La categoria platonica del proton philon intreccia le relazioni umane con l’ordine universale e caratterizza così, in modo specifico, il Platonismo. Nel Liside è tuttavia possibile individuare una classificazione latente dei tipi di amicizia tra esseri umani – anche nelle loro determinanti sociali – ma la presenza fondamentale di Socrate rende possibile l’approdo ad una concezione esperienziale dell’amicizia di livello superiore: l’amicizia si risolve nella sophia vale a dire è strettamente intrecciata con la philo-sophia.

Scena del dialogo, protagonista e deuteragonisti. A questo punto è opportuno presentare una sintesi del dialogo ove si tenti di ricostruire la riflessione platonica sul tema ed aprire così, successivamente in altra sede, una comparazione con altre trattazioni classiche in primis quella di Aristotele. L’attore narrante principale è Socrate, vero protagonista e regista del dialogo. La scena è quella di una via dove Socrate incontra per caso due giovani – Ippotale e Ctesippo – che lo invitano ad entrare in una palestra, appena costruita, per discutere con loro e con i loro amici[6].  I giovani aristocratici ateniesi si incontravano nelle palestre per praticare attività sportive ed anche per ricevere una forma di istruzione. Nella nuova palestra dove Platone ambienta questo dialogo insegna un tal Micco, Sofista amico di Socrate; dunque gli astanti potranno conversare in tranquillità. Socrate, che per dono divino è capace di riconoscere a prima vista «chi ama e chi è amato», vuole sapere da Ippotale quale è il più bello tra i suoi compagni. Alla domanda Ippotale arrossisce. Ctesippo risponde al suo posto ed avverte Socrate che Ippotale cerca di conquistare il Liside componendo e recitandogli elogi in versi ed in prosa. E di questi componimenti dà alcuni esempi. Socrate ammonisce immediatamente Ippotale e critica questa tecnica di corteggiamento che, a suo dire, avrà solo l’effetto di inorgoglire Liside e di indurlo ad essere così ancora più distante da chi lo vorrebbe come amato. Non è affatto conveniente elogiare troppo chi si ama prima di averlo conquistato, poiché in questo modo non si fa altro che insuperbirlo e renderlo indifferente alle attenzioni dell’innamorato. Detto ciò Socrate prende sottobraccio Ctesippo ed entra nella palestra.  In quel momento è appena terminata la celebrazione della festa di Hermes, patrono dei ginnasi, ove si fanno sacrifici al dio e si svolgono giochi atletici. Alla festa partecipano esclusivamente giovani, di età leggermente differente ma ciò che li accomuna è l’essere adolescenti di buona famiglia, naturalmente «tutti molto ben vestiti» in quanto chi assisteva ad un sacrificio era sempre vestito di bianco e portava sul capo una corona di fiori. «Con loro c’era anche Liside, che se ne stava lì in piedi fra i ragazzi e i giovani col capo incoronato e con un aspetto tale da meritare non solo la fama di bello, ma anche di bello e buono» [Liside 207 A]. La mescolanza festosa dei ragazzi dovrebbe permettere ad Ippotale di godere della compagnia di Liside, che è e che rimane l’interlocutore più giovane nel quale ci si imbatte nei dialoghi platonici. Ippotale però si sente insicuro e preferisce farsi scudo di altri ragazzi nel timore del rifiuto di Liside e dunque ascolta appartato. A questo punto si potrebbe osservare che essendo un dialogo sull’amicizia intestato ad un adolescente, implicato però anche in una relazione virtualmente amorosa, Platone sembra volerci suggerire che l’esperienza amicale ha la sue radici e le sue manifestazioni fondanti sul piano sentimentale ed emotivo in una fase primaverile della vita.  Ma si tratta di un’impressione che verrà smentita esplicitamente.  Socrate, dopo avere avviato una conversazione con Liside e Menesseno, esprime il suo punto di vista sul come affrontare la persona che si ama per riuscire a conquistarla. Guardando verso Ippotale, che si nasconde per la timidezza, pensa che «bisogna dialogare con l’amato, umiliandolo e temperandone l’orgoglio, e non esaltandolo e viziandolo». Subito dopo esplicita in modo palese il suo forte desiderio di amicizia, dichiarando la sua ammirazione per il modo con cui Liside e Menesseno, nonostante la loro giovane età siano riusciti a procurarsi questo bene così raro. Così Socrate parla a Menesseno, quasi invidiando l’amicizia che ha intrecciato con Liside : «Fin da bambino, c’ è qualcosa che io desidero possedere…ardo dal desiderio di avere amici, e vorrei avere un buon amico piuttosto che la miglior quaglia e il miglior gallo del mondo… quando vi vedo, te e Liside, rimango colpito e vi ritengo felici, in quanto, pur così giovani, siete stati capaci di procurarvi questo bene velocemente e facilmente….Io, invece, sono tanto lontano da tale possesso, che non so neppure come uno diventa amico dell’altro, ed è proprio questo che voglio domandare a te che ne hai esperienza» [Liside 212 D].

Platone sembrerebbe allora, in questo modo, dichiarare i vari significati che attribuisce al termine philia, inclusivo sia della passione di Ippotale per Liside sia dell’amicizia fraterna tra Liside e Menesseno. Menesseno viene interrogato da Socrate sull’amicizia o più precisamente sul «come uno diventa amico di un altro». Va sottolineato come il clima amicale che incornicia e che pervade l’intero dialogo rappresenti una precondizione per il raggiungimento della vera conoscenza. A questo punto i protagonisti della scena crescono secondo una dinamica interattiva graduale che corrisponde alla familiarità tra i giovani presenti. Si forma così un gruppo che aspira evidentemente ad ascoltare Socrate e a profittare della sua sapienza. Tra loro compare anche Liside che, cauto, si avvicina insieme a Menesseno.

Liside è il figlio primogenito di Democrate, del demo di Aissone.  Questo personaggio, che non verrà nominato in altri dialoghi platonici, al momento del suo incontro con Socrate poteva avere   attorno ai 15 anni al pari del suo amico Menesseno. Appartiene ad una famiglia ricca e potente, che faceva risalire le sue origini addirittura a Zeus. Nel corso del dialogo si ha modo di ricostruire la nobiltà dell’aspetto e il grado raffinato della sua educazione. In particolare, Liside dimostra una naturale inclinazione ad ascoltare e ad apprendere, un’inclinazione che ne fa un allievo ideale. Per inciso, non va sottaciuto che Λύσις in greco significa scioglimento, soluzione. Liside è curioso e ansioso di imparare, arguto e disponibile al rapporto più che amichevole con il suo interlocutore, un aspetto che è la pre-condizione per una discussione aperta e condotta in modo efficace secondo il metodo socratico. Liside in altri termini si presenta come il prototipo del discepolo socratico, dotato di talento filosofico in quanto già nel primo confronto con Socrate diventa consapevole della propria ignoranza e così si predispone a cercare una risposta alla questione fondamentale che fa da filo rosso del dialogo. Menesseno, invece, è un giovane nobile che si dedicherà all’attività politica, figlio di Demofonte e cugino di Ctesippo insieme al quale sarà presente alla morte di Socrate. Ippotale al pari di Ctesippo al tempo del dialogo doveva avere tra 15 ed i 18 anni. Ctesippo è uno dei discepoli di Socrate ed è cugino di Menesseno. Micco, ammiratore e coetaneo di Socrate, è un Sofista che insegna nella palestra e che viene definito ironicamente da Socrate ‘abile’, mentre Socrate dirà di sé stesso – con saggia modestia – che è ‘di poco valore’.

Amicizia ed amore nella relazione genitori-figli. L’estensione e l’ambiguità semantica della philia, come si è detto, include le relazioni familiari e dunque un primo ragionamento sull’amicizia riguarda i genitori e il loro amore per i figli. Un amore che non è esente però da razionalità; il  che li porta talvolta, anche per il loro bene, ad assumere atteggiamenti e comportamenti tutt’altro che benevoli ed amichevoli verso i figli. I genitori, con la loro autorità affettivamente responsabile, insegnano ai figli che non possono fare tutto quello che vogliono. L’inesperienza dei figli cozza con la saggezza dei genitori che impostano la loro relazione affettiva in vista del futuro benessere morale e materiale dei figli, costi quel che costi. Spesso anche una loro eventuale reazione poco filiale.  Dunque Liside deve aspirare alla sapienza perché in questo modo avrà la piena fiducia e l’affetto dei genitori, oltreché conquistare una sua identità autonoma.  La prima riflessione sull’amicizia dunque l’associa con l’affetto per chi è più giovane e membro di un gruppo fondamentale come la famiglia. Il filo argomentativo proposto da Socrate si fonda sull’idea che solo la conoscenza è la vera guida dell’agire umano. Tramite la vera conoscenza l’uomo diventa capace di proporsi liberamente dei fini e perseguirli con la fiducia di chi lo ama.  Ne consegue che solo chi è sapiente ed esperto in qualche cosa è affidabile ed utile; solo in questo modo grazie al sapere (indotto da un maestro) genera effetti positivi risolvendo problemi, e dunque merita l’amicizia. «Però, se tu, ragazzo, diventerai sapiente, tutti ti ameranno e tutti ti saranno intimi, in quanto sarai utile e buono. In caso contrario, proprio nessuno, neppure tuo padre e tua madre ed i tuoi parenti ti saranno amici» [Liside 210 D]. Fino a questo punto Socrate sembra abbracciare una concezione “utilitaristica” della philia tipica della tradizione. Ma non si tratta certo di una concezione dell’utile banalmente basata sullo scambio di favori. Si allude al riconoscimento di quello che è oikeion a ciascuno e che gli consente di portare a piena e consapevole maturazione l’essenza della sua natura umana che si può realizzare (per sua utilità) solo nel vero sapere, in quel sapere che è finalizzato al Bene, come meglio si dirà infra[7].

L’amico è colui che ama o colui che è amato? Platone sembra considerare, dapprima, una concezione tradizionale di amicizia fondata su uno schema dicotomico: attrazione/repulsione, cioè riferibile ad un campo di tensione dinamica e biunivoca entro cui si manifesta, usualmente, la relazione amicale. Naturalmente ci si deve domandare se, individuati gli aspetti dinamici che la caratterizzano, questo dato sia sufficiente per definirla. Platone esplora le possibilità semantiche legate al termine philos. Il termine può alludere al fatto che si è amici di qualcuno sia in un senso passivo sia in un senso attivo. L’amico può amare anche chi non lo ama, ma questo tipo di ragionamento può condurre ad un’aporia insensata. Socrate pone poi a  Liside una questione insidiosa che ha a che vedere con la collocazione del sentimento nell’ambito dell’interazione affettiva che pervade la relazione amicale: «Quando uno  è amico (φιλῇ)                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        di un altro, chi dei due diventa amico (φίλος) dell’altro, l’amante (φιλῶν) dell’amato o l’amato (φιλούμενος) dell’amante, o non c’è alcuna differenza?» [Liside 212 A-B].  Emerge, ancora una volta, tutta l’ambiguità del termine φίλος che ha sia una forma attiva se riferito al soggetto che ama, sia una forma passiva se riferito all’oggetto del trasporto affettivo. In un senso attivo l’amicizia descriverebbe un rapporto di affetto reciproco fra due persone. Così argomenta Socrate con l’assenso prudente di Menesseno: «Allora, ci pare che le cose stiano diversamente da come ci parevano prima. Allora, infatti, si diceva che, se uno dei due ama l’altro, entrambi sono amici: adesso, invece, che, se l’uno e l’altro non si amano reciprocamente, nessuno è amico dell’altro…non ci può essere nessuna amicizia, se non c’è amore reciproco» [Liside 212D]. La reciprocità comunque non rappresenta un elemento costitutivo unico dell’amicizia. Il dialogo si sviluppa nel suo tentativo di arrivare ad una definizione per approssimazioni successive.  Si chiede Socrate, cosa si può dire quando siamo amici di persone che ci sono ostili? Oppure che cosa avviene quando si prova affetto per qualcosa di inanimato – o per un animale – che in quanto tale non può ricambiare il nostro sentimento? In breve, la riflessione si sposta su casi che implicano l’assenza di reciprocità che sembrerebbe, invece, essere un elemento fondante ed imprescindibile dell’esperienza amicale.  Socrate considerando le relazioni non reciproche sembra compiacersi nell’esercizio di complicare, in modo cavilloso ed ironico, la definizione di amicizia. Il passaggio dalla forma attiva alla forma passiva di φίλος si conclude con l’affermazione che colui che è amato non è chi ama, ma chi è amato, anche se non restituisce l’amore. Ragionando in questo modo si approda al paradosso secondo cui un amico è amico del nemico; in altri termini si afferma un’assurdità perché è senso comune che non si può essere amici di chi ci è nemico e/o di chi non ricambia il nostro affetto. Il ragionamento si sviluppa in modo intricato e paradossale, con esempi che ne smentiscono – a tratti – alcuni punti chiave. Socrate usa una tecnica eristica che tuttavia non è affatto mirata all’autocompiacimento di chi argomenta e che, nella sostanza, sembra confermare ulteriormente il suo forte bisogno di amicizia esplicitato nell’intermezzo del dialogo.

 

La somiglianza e la diseguaglianza come fondamenti metafisici dell’amicizia. Socrate riorienta Liside per farlo riflettere più che sulla definizione di amicizia sulla questione del come due persone diventano amiche. Socrate suggerisce «sulle orme dei poeti che sono come dei padri e guide…quando esprimono il loro pensiero su quelli che si possono dire amici», che il simile è amico del simile[8]. Platone introduce in sintesi, tramite Socrate, la teoria dei simili per circostanziare, da filosofo, le cause del legame amicale. La divinità, o il caso necessitante, spingono il simile verso il simile: ma questi due attori si attirano e sono portati ad interagire, soprattutto, tramite la loro natura di esseri buoni. Il discorso si avvale dei testi di poeti come Omero ed Esiodo e delle osservazioni di filosofi come Eraclito ed Empedocle: si tratta di una scelta di metodo per un’analisi che comprova la complessità del tema ed affronta, in un contesto di pensiero articolato, la questione di cosa sia l’amicizia. Una smagliatura analitica, vale a dire l’indeterminazione su cosa sia il buono mentre il malvagio viene definito come soggetto «incostante e privo di misura», ostacola una definizione compiuta del senso dell’amicizia tra buoni. Il principio della giusta misura è imprescindibile nella riflessione platonica perché si connette al principio dell’ordine, principio basilare per l’ordine cosmico e per l’ordine interiore del singolo soggetto.  Il cordone ombelicale che lega il singolo individuo all’ordine cosmico ha una natura morale: l’armonia universale reclama un equilibrio interno al soggetto che deve andare d’accordo con sé stesso per essere d’accordo con gli altri.  Comunque l’approccio in termini di somiglianza non è del tutto soddisfacente anche perché il buono basta a sé stesso e grazie alla sua autosufficienza non avrebbe bisogno dell’amicizia. Questo modo di argomentare arzigogolato conduce a delle astrusità come quella secondo cui: «chi non ha bisogno di nulla non può nemmeno amare… e chi non ama non può neppure essere amico». Insomma il buono in quanto tale sarebbe un anaffettivo ed un solipsista. Di seguito si propone, e si critica, la teoria dei contrari per la quale i contrari sarebbero legati da amicizia proprio perché diventano complementari e si aiutano così vicendevolmente. Però si arriva così all’assurdo che l’inimicizia sarebbe amica dell’amicizia.  Dunque si constata che anche la tesi in chiave di dissomiglianza non approda ad un esito accettabile. Tuttavia sembra che entrambe le teorie includano degli elementi di verità e dunque la loro confutazione va avanzata cum grano salis. A questo punto Socrate, con un’elegante piroetta logica, introduce la categoria terza di ciò che non è né buono né cattivo[9]. È l’intermedio (metaxy) che per effetto della presenza del malvagio viene indotto ad essere amico del bene. Si configura così l’ipotesi secondo cui «ciò che non è  né buono né cattivo divenga talvolta amico del buono». Diventa capace di amicizia chi si trova in una zona intermedia. Socrate sembrerebbe ritenere che alla base dell’amicizia ci sia un qualche tipo di necessità. Un desiderio di qualcosa (o di qualcuno) di cui si sia stati privati. Platone ha il merito di introdurre nella riflessione filosofica, grazie al Liside, questa categoria che pur, nella sua indefinitezza, ha un radicamento morale ed antropologico. L’essere intermedio sembrerebbe una sorta di ermafrodito morale che contiene in sé sia il bene sia il male. La philia lo fa uscire da questa instabilità bivalente nel senso che gli rende desiderabile il bene e gli impedisce la caduta irreversibile nell’abisso del male. Chi non è completamente cattivo diventa amico del buono. Chi non è del tutto ignorante e riconosce di non sapere ciò che non conosce può diventare amico della sapienza. Ma anche questo passaggio riflessivo sull’amicizia si svelerà provvisorio e non soddisfacente. Il discorso platonico sull’amicizia si connota filosoficamente con l’introduzione di un’ulteriore, e non agevolmente decifrabile, categoria o meglio principio del Primo Amico che è un’anticipata applicazione della dottrina dei Principii. Tale dottrina si specifica, anche ad un livello lessicale, grazie ai termini archè e proton. Il percorso del pensiero approda naturalmente ad un termine, al raggiungimento di una mèta che si accompagna al riposo meritato, dopo il compimento di un itinerario. L’amicizia in quanto mèta a cui si tende, è intrinsecamente legata al desiderio di Bene. Socrate quando parla del Primo Amico si riferisce a questo bene supremo. Il fondamento dell’amicizia sta in qualche cosa che è “caro” ma in un senso molto diverso da quello che mi è “caro” perché mi è utile.

La ricerca del Bene conferisce senso alla ricerca dell’amicizia. Eros e philia. Sotto il profilo conoscitivo viene sottolineata l’instabilità della condizione umana, stretta tra sapienza ed ignoranza. La natura malvagia costitutiva dell’umano crea una sofferenza che spinge verso il bene come approdo liberatorio dal male. Il maestro, vale a dire colui che sa di non sapere, svolge una imprescindibile azione di orientamento verso il percorso che conduce ad una sapienza il cui contenuto essenziale è dato dalla ricerca del bene e dall’emancipazione dal male. Come scrive Lualdi[10]: «Per la prima volta il concetto di filosofia viene saldamente legato alla ricerca del bene, alla liberazione dal male. Esso è considerato non come un esempio della philia, ma come il vero modo di attuarsi della philia stessa nell’uomo, attraverso la sua amicizia per il Primo Amico, il Bene, e mediante l’ausilio di un maestro, che sa di non sapere le cose che non sa, ma che già conosce la strada e la mèta e può dare delle indicazioni utili per giungervi». Dunque il Maestro e l’Allievo condividerebbero, tramite la conoscenza e la ricerca del Bene, un’esperienza di autentica amicizia.

In questa stessa sezione del Liside emerge un altro concetto importante sotto il profilo speculativo: il concetto di παρουσία del male. L’anima per Platone è un’entità   neutra – né buona né cattiva – ma contiene un male interno che la spinge a ricercare il bene. La παρουσία (presenza) di un κακόν non significa che l’anima sia perduta irreparabilmente. L’anima infatti va alla ricerca di ciò che le consente di ripristinare la sua condizione iniziale ideale, cioè il suo oikeion: il Bene, la cui perdita ha generato uno status di carenza[11]. Similmente sappiamo che l’ignoranza è un male e che la sapienza è un bene; ma la presenza dell’ignoranza nell’anima non è un male assoluto, è una condizione che può generare l’aspirazione al bene che manca. Il filosofo si trova in una posizione intermedia, perché non è né sapiente né ignorante, mentre è consapevole della propria ignoranza e quindi amico della sapienza.  Si potrebbe concluderne che alla base dell’amicizia sta l’esigenza ineludibile di soddisfare il desiderio di completamento che caratterizza l’anima. Si arriva ad affermare che si è amici «in vista di qualcosa e per un motivo (ἔνεκά του καὶ διά τι)» [Liside, 218 D10]. Ma se si accettasse questa impostazione si accetterebbe una concezione utilitaristica in senso miope dell’amicizia che non ha spazio nel pensiero del Socrate di Platone.

A questo punto appare opportuno inserire una parentesi che riproponga, brevemente, il confronto Ἔρως e Φιλία. In questo modo infatti sembra possibile chiarire meglio l’ubi consistam del desiderio dell’oikeion. La teoria dell’amore di Platone[12] si articola in sostanza su due manifestazioni – ἔρως e φιλία – dimensioni differenti ed interdipendenti. Tale teoria è fondamentalmente riconducibile al desiderio del Bene. Il filosofo ha il dovere di far sì che l’anima abbia coscienza della propria carenza e ambisca a riprendersi ciò che le è stato tolto. L’anima è stata privata dell’oikeion, identificabile con il Bene. La condizione di deprivazione diventa allora la causa prima dell’amore e dell’amicizia. Un passo del Liside argomenta la dimensione del desiderio come dimensione esplicativa della philia: «Il desiderio è a causa dell’amicizia, e chi desidera è amico di ciò che desidera e nel momento in cui lo desidera (…) ciò che prova un desiderio, prova desiderio per qualcosa di cui è mancante (…) si è mancanti di qualcosa di cui si è privi (…). A quanto sembra, si dà il caso che l’amore, l’amicizia e il desiderio (ἐπιθυμία) siano sempre di ciò che ci è affine (οἰκείου)» [Liside, 221 E-222 A].  Così Socrate, rivolgendosi a Liside e a Menesseno ed ottenendone l’assenso, stabilisce che causa dell’amicizia è il desiderio e che l’amicizia è desiderio di ciò che ci è affine. Eros e philia sono distinti ma convergenti nella loro comune tendenza alla ricerca dell’oikeion che altro non è se non il ponte tra il mondo sensibile e l’ idea del Bene. Secondo Pizzolato «la dottrina platonica dell’amicizia pare quella stessa dell’amore, sempre che la philia non sia addirittura un altro nome dell’amore, come suggerisce la duplice funzione ricoperta dal verbo philein… Comunque sia, grazie a questa sostanziale inclusione dell’amicizia nell’amore, operata da Platone, l’amicizia, pur non superando il suo significato sociologico vulgato, diventa un fatto psicologico e addirittura teologico. Essa ottiene, grazie a Platone, un posto di primo piano nell’ascesi dell’anima»[13].

In sintesi. Platone inserisce nel contesto di un approccio filosofico la ricerca di ciò che è amico ed è interessato a ricostruire la ricerca del Bene definito in termini di oikeion.  Il termine oikeion si riferisce ad un territorio semantico articolato: viene tradotto con “affine” oppure con “proprio”, “conveniente” ma nell’essenza è riconducibile all’oikos, vale a dire alla “casa” e dunque a ciò che ci è veramente familiare perché ci appartiene e ci fa sentire appartenenti. L’amico cerca nell’altro un dato di familiarità, una dimensione che allude a ciò che gli appartiene e di cui è mancante. Il desiderio di amicizia in questo modo si legittima. Il desiderio di Socrate viene rivolto alla conquista di un buon amico perché questo desiderio è “buono” essendo l’amicizia, nella sua essenza, amicizia del Bene. Platone nel dialogo evoca delle situazioni intenzionali che esemplificano la configurazione della relazione per cui qualcuno ama qualcos’altro (o qualcun altro) in vista di un fine: il malato ama il medico perché tiene alla sua salute ed il medico rappresenta la possibilità di vita di fronte al pericolo della malattia, così come il padre ama il vino perché come antidoto al veleno che sta uccidendo il figlio ne garantisce la guarigione. La relazione amicale che Platone sta delineando, come si è detto poco sopra, non può essere semplicemente di carattere utilitaristico in un senso gretto ed a-socratico. Il fine vero cui tendono l’amore e l’amicizia è il Bene, che nel Liside è rappresentato dal πρῶτον φίλον.  Alla base dell’amicizia c’è il Bene il cui statuto ontologico non è l’utilità che ci fa dire amico qualcuno in vista di qualcosa d’altro. Il Bene è amato in se stesso; è oikeion dell’anima, essenza della natura umana. Una natura imperfetta che tende, tuttavia, inevitabilmente verso il fine della perfezione originaria. L’anima anela al ritorno al mondo delle Idee: questa è la vera causa, l’elemento determinante, il motore primo dell’amicizia.

Il Primo Amico e la vera amicizia. Il fine più alto dell’amicizia tuttavia, secondo Platone, non ammette una ricerca all’infinito: «Allora, non è forse necessario che noi rinunciamo a procedere in questa maniera e che arriviamo a un principio che non rimandi più a un’altra cosa amica, ma giungerà a quello che è il Primo Amico, in vista del quale diciamo che sono amiche anche tutte le altre cose? [Liside 219 C]. Il desiderio si traduce allora nella ricerca del πρῶτον φίλον, che altro non è se non definito come principio ultimo di tutte le altre forme di amicizia. Il Primo Amico è ἀρχή [Liside, 219 C], cioè un principio che conferma il senso della ricerca dell’oikeion da parte dell’anima. Il πρῶτον φίλον è il fine ultimo in cui si risolvono e trovano unità di significato le numerose manifestazioni che assume in concreto l’amicizia.  Quale è la sostanza del Primo Amico? Il primo Amico si identifica nel Bene come viene argomentato da Socrate: «Di questo, dunque, ci siamo liberati, ossia che l’amico non è amico in vista di un altro amico; ma allora, amico è forse il bene?». «Mi sembra», risponde come sempre prudente Menesseno [Liside 220B].

Di nuovo appare illuminante di questo itinerario, non poco labirintico, il commento di Lualdi: «Il proton philon è condizione prima e non condizionata da altro, è principio di valore, tale cioè che fa essere buone ed amiche delle cose che per sé sarebbero indifferenti, orientandole e finalizzandole. Il postulare un proton philon dà la possibilità di porre un assoluto che fondi il relativo e che spieghi la natura e le condizioni di ogni forma di amicizia, sia nel cosmo sia tra gli uomini. È questo l’elemento fondativo cui non erano giunti i filosofi naturalisti e sul quale la poesia e la letteratura non avevano indagato. È questo che sottrae l’amicizia al soggettivismo o al relativismo entro cui la racchiudevano i Sofisti e che le dà un criterio valido, il bene assoluto ed unico a cui tutti gli oggetti di amicizia convergono, e in grazia del quale divengono essi stessi dei beni: esso è, come è stato detto, “la misura del loro valore”»[14]. Resta poi altrettanto evidente che la natura del proton philon e quella delle altre cose amiche sono profondamente diverse (anche se è inevitabile considerare la loro, pur problematica, interdipendenza).

I bisticci linguistici si confondono (e ci confondono) con le analisi logiche e con la definizione di concetti che sono dei pilastri del sistema di pensiero platonico. I Principii della realtà sono due: il Bene ed il Male, legati fra di loro in una maniera difficile da decifrare. Significativa è la concezione del Male come un dato di assenza, un deficit da fronteggiare che alimenta una tensione, un’aspirazione verso il Bene che anima chi non sia stato fagocitato completamente ed irrimediabilmente dall’esperienza del Male. Verso la fine del dialogo viene in luce, ancora una volta, il problema dell’affinità come dimensione che permette il legame di amicizia.  Viene subito sottolineata la differenza tra affinità e somiglianza. L’inserimento del concetto di affinità (oikeion) sembra riflettere le condizioni emotive ed esistenziali degli attori del dialogo: da un lato l’amicizia   serena tra Liside e Menesseno, dall’altro lato le speranze amorose di Ippotale. Il concetto di oikeion, tuttavia, è poliforme e sfuggente; intriso di una dimensione di instabilità che introduce aspetti fin paradossali nella articolata casistica relativa all’amicizia.

Il Primo Amico tende a sovrapporsi con il congiungimento, con l’appartenenza familiare. L’affinità intersoggettiva si spiega con la ricerca dei valori del Bene che gratificano l’incontro amicale. La parte conclusiva del dialogo non può non sorprendere il lettore contemporaneo, anche se (o forse proprio perché) il topos dell’amicizia nella modernità si dipana su piani di tutt’altra natura. Socrate fa un riepilogo degli argomenti proposti ma l’esito di questa sintesi sembra, praticamente, fallimentare nel senso che il dialogo non riesce in quello che era il suo scopo essenziale vale a dire rispondere all’interrogativo che cosa sia l’amico. In realtà, nella sua elegante tortuosità argomentativa, il dialogo si è sviluppato seguendo due filoni tematici interconnessi: non ci si è preoccupati tanto di cogliere l’essenza della persona in quanto amico, quanto piuttosto delle modalità concrete della relazione amicale e delle condizioni che la consentono.  Le domande esplicitate (ed irrisolte) erano due: “come si diventa amici” e “chi diventa amico di chi”. Merita, infine, un’interpretazione l’irruzione finale dei cosiddetti pedagoghi che interrompono Socrate nel suo dialogare e gli sottraggono l’uditorio perché devono riportare a casa i giovani che loro hanno il dovere di sorvegliare. La loro presenza si propone come non casuale metafora della rozzezza intellettuale e della volgarità che inibiscono ogni ragionamento autentico.

Osservazioni aporetiche e conclusive. Lo stile conversazionale di Socrate va evidenziato in quanto è costituito da vari elementi intrecciati: in primis la capacità di dialogo con i suoi interlocutori che si pongono nei suoi confronti in una relazione di apertura asimmetrica e tipica  da Allievo a Maestro; e poi,  la mutevolezza nella prospettiva che guida i ragionamenti con sospensioni, sottolineature, inserimento continuo di incertezze e con il coraggio di ammettere, da vero Maestro,  le sue incapacità a definire o concludere in maniera completa e sensata il tema prescelto.

Il tema dell’amicizia viene, comunque, declinato nella sua dimensione plurale e complessa.  Appare chiaro, una volta di più, che l’area semantica dell’amicizia platonica (e, fatte le debite distinzioni, più in generale quella delineata nel pensiero greco classico) è straordinariamente estesa. Platone, tramite una categoria di riferimento superiore ed omnicomprensiva quale è quella del proton philon, opera una sorta di reductio etica che inibisce la dispersività di significato attribuibile alla nozione di amicizia ove fosse considerata unicamente in modo empirico. Per riprendere alcune linee analitiche costitutive del dialogo si può osservare che Platone completa l’indirizzo socratico sul tema della philia, collegando gli aspetti antropologici ed etico-psicologici sottolineati da Socrate con gli aspetti di tipo cosmologico dei naturalisti, ma superandoli in una visione personale che tiene conto dell’aggancio ineludibile al principio del Bene. Con il che si conferisce all’amicizia una posizione apicale nella gerarchia dei valori che orientano il comportamento nella sfera privata e nella sfera pubblica.

Platone, con un’acribia sapientemente articolata, pone il problema dell’utilità reciproca, dell’amicizia con sé stessi, dell’autosufficienza dei buoni, dell’impossibilità dell’amicizia tra malvagi e determina la complessa interdipendenza tra amicizia e sapienza che a noi moderni può apparire di un’inutile astrattezza. Ha distinto la philia dall’eros ma ha individuato anche alcuni tratti comuni. Ha sottolineato la priorità della ricerca dell’essenza e delle cause ultime che dà senso all’indagine filosofica. Il principio del Bene è la condizione di ogni philia.  Osserva Lualdi che «I veri amici sono coloro che si aiutano vicendevolmente nel cammino di conquista della saggezza che dà la possibilità di arrivare al Bene ultimo: così la vera amicizia è filosofia ed il vero amico è il filosofo, colui che sa condurre, attraverso l’educazione e la comunanza di vita verso il Bene e la sapienza. La philia consiste nel fare unità in sé stessi, con l’altra persona, con il cosmo e nel superare la dispersività e il disordine in grazia del Bene a cui si tende. La philia umana non è più un rapporto istintivo, sia pure di tipo nobile ed elevato, ma è autentico e non ‘da simulatori’ [Liside 222 A] quando unisce due persone nella ricerca di beni sempre alti, sino ad arrivare a quel Bene che è Primo Amico»[15]. Merita sottolineare che «l’amicizia per il sapere e per il Bene e l’amicizia reciproca che si viene a creare tra il maestro, che guida verso il Bene, e i discepoli, che vi si lasciano guidare, costituisce l’autentica dimensione della filosofia»[16]. La ricerca del Bene, amato per sé stesso e non in vista di un altro scopo, rende l’amicizia depurata dal desiderio passionale ed istintivo. L’amicizia sembra assumere, allora, la forma di amore non erotico. L’eros, secondo il meccanismo che viene descritto specialmente nel Simposio, perde progressivamente il suo lato passionale e assume la forma di un amore razionale che è una dimensione particolare di philia.

Lo schema relazionale tra gli attori del dialogo si impernia su Socrate che è la fonte argomentativa principale. Prevede poi: a) una relazione di innamoramento (non di amicizia) tra Ippotale e Liside che è una relazione problematica perché non si sviluppa all’insegna della reciprocità; b) una relazione di amicizia fraterna tra Liside e Menesseno. Questo quadro relazionale, piuttosto semplificato nella sua articolazione, fa da premessa alla trattazione problematica del tema fondamentale. Riassumendo: Socrate, Liside e Menesseno non sono stati capaci di definire che cosa sia l’amicizia.  Si sono soltanto «ubriacati dai ragionamenti» [Liside, 222 C], e non sono riusciti a concludere in modo convincente il loro argomentare. Nella scena che chiude il dialogo i due amici si separano da Socrate, interrompendo così il tentativo di arrivare ad una definizione di un’autentica φιλία, mentre sembrano lasciare aperta la porta ad un incontro successivo. Entrano in scena alla fine, in modo platealmente rumoroso, i pedagoghi di Liside e di Menesseno.  Si ricordi che i pedagoghi, al di là dell’etichetta per noi risonante che li qualifica, di fatto erano semplicemente degli schiavi di origine barbarica che avevano soprattutto il compito di accompagnare i figli delle famiglie agiate e di sorvegliarli quando erano fuori da casa. Questo labirinto riflessivo dipanatosi nel dialogo non è tuttavia dannoso e contrasta con l’ubriachezza volgare e gratuita dei pedagoghi, il cui arrivo pone fine all’incontro. L’esplorazione logica che precede l’esito indefinito sul tema è sicuramente interessante per il suo vasto raggio. Quel che conta è la complessità della ricerca. L’aporia rappresenta una prima fase della dialettica platonica nel senso che depura il percorso conoscitivo dalle opinioni errate e dunque fuorvianti.  In altre parole il carattere aporetico del dialogo non significa che sia davvero inconcludente. La struttura analitica dei dialoghi aporetici, da ascrivere alla fase giovanile del pensiero platonico, appare significativa sotto il profilo metodologico nel senso che l’aporia appare come un tramite fondamentale dell’indagine socratica e della sua funzione maieutica. Il senso ultimo del dialogo allora non va ritrovato nella ricerca di una definizione di amicizia ma piuttosto nell’indagine della sua causa[17]. Più precisamente il Liside opera un tentativo di risposta alla domanda “Chi è l’amico e perché?” piuttosto che tentare di rispondere alla domanda “Che cosa è l’amicizia?”.

L’amicizia, in definitiva, secondo il Socrate platonico del Liside, avrebbe una causa ultima di carattere universale.  Tutte le cose sono uniche in virtù di una ragione di ordine superiore: è il principio del Bene che regola questa proprietà diffusiva dell’amicizia.  Come bene scrive Reale: «La ricerca del Bene è, dunque, ciò che fonda ogni amicizia; è il vero cespite e il fondamento dell’amore. E il desiderio della prima cosa amica, la quale è appunto il Bene supremo, è ciò in funzione del quale si ama ogni cosa particolare»[18]. Le amicizie nella loro eterogeneità di espressione e nella loro diversità di obiettivi tendono ad una causa finale che altro non è se non il Bene. Tale asserzione ha una natura essenzialmente socratica. Il dialogo è, poi, necessariamente aporetico, come ha notato Gadamer, anche per effetto della giovane età e dunque dell’inesperienza degli interlocutori che dipendono qui integralmente dalla saggezza socratica. La conquista della sapienza dunque, così come il vissuto dell’amicizia reclamerebbero una coscienza matura. L’aporeticità è da considerare come un espediente tattico, come un’utile anticamera di una riflessione più articolata e solida elaborata da soggetti colti e maturi nell’età. Va da sé che una riflessione sociologicamente adeguata, ovviamente, dovrebbe proporre anche un’analisi dell’esperienza amicale articolata anche su base generazionale. Una prospettiva che de facto lo stesso Liside sembra considerare visto che l’interazione amicale è confinata esclusivamente a degli adolescenti. Ma questo percorso non è in sintonia naturalmente con lo schema di riflessione platonico che si pone su un piano più complesso dato che incornicia l’amicizia in una dimensione morale ed identitaria secondo un approccio prettamente filosofico.

Come corollario analitico si possono poi considerare due aspetti significativi dell’approccio platonico: la prima è quella della φίλια concepita come virtù politica; la seconda è quella relativa all’amicizia tra sapienti. L’amicizia rappresenta nell’analisi di Platone anche, e forse soprattutto, un simbolo del vincolo tra soggetti aristocratici nello spirito (e non solo) che lottano per conservare la propria libertà e l’indipendenza dal potere tirannico. Questo aspetto pubblico dell’amicizia, essenza del tessuto civico, viene evocato chiaramente a proposito del legame tra Aristogitone e Armodio di cui si tratta nel Simposio e da Alcibiade nell’omonimo dialogo allorquando stabilisce l’affinità tra la philia e l’homónoia, vale a dire la concordia tra i cittadini che fa sviluppare la città.  Ma questa dimensione si può intravvedere anche nello sfondo che accompagna la discussione nel Liside quando si   presenta la φιλία come una condizione dell’animo, una virtù espressa da un sentimento che conferisce dignità e identità agli uomini. È stato notato che i due giovani protagonisti del dialogo sono amici che condividono i natali di rango, l’età e la bellezza cioè degli elementi ascrittivi radicati nella tradizione della città e nelle rispettive appartenenze familiari, ma è altrettanto evidente che si introducono parametri innovativi perché Socrate sposta l’attenzione dal loro status familiare chiedendo chi fra dei due è più giusto e più sapiente [Liside, 207 D]. In altri termini la vera amicizia ha una connotazione che deriva soprattutto dalla conquista della virtù. La conquista della saggezza diventa un fondamento indispensabile alle relazioni amicali. La φιλία si accompagna ad uno stato di equilibrio interiore che si incontra con il controllo esercitato dalla ragione, un controllo che favorisce la temperanza e la moderazione nei comportamenti: due precondizioni per il raggiungimento congiunto della sapienza individuale e della giustizia nella polis.  Felicità privata e felicità pubblica così si intrecciano.

Platone sembra suggerire una sorta di gerarchia tra le forme di amicizia quando nei suoi dialoghi avanza la tesi secondo cui l’amicizia fra i filosofi è migliore delle altre ed incarna l’amicizia perfetta. Questa tesi ritorna e si associa a quella secondo cui «solo il buono può essere amico del buono, mentre il cattivo non può essere amico né di un buono né di un cattivo» [Liside, 216 D].  Platone insomma sembra asserire che solo i virtuosi sono veramente amici e che i filosofi, essendo i virtuosi per definizione, sono l’espressione o meglio i portatori dell’autentica amicizia. Questa tesi “aristocratica” permette di riflettere anche sul rapporto tra eros ed amicizia perché le caratteristiche del legame interpersonale fra persone virtuose, che cercano solo il Bene, le vede prive di una passione sfrenata. La sua descrizione del rapporto amicale si adatta ad una persona dotata di temperanza, saggezza e nobiltà, un soggetto (cittadino- filosofo) dotato cioè di quelle qualità morali che appartengono a una persona virtuosa. Socrate, naturalmente, incarna questo tipo ideale di persona saggia e virtuosa che si prende cura dell’anima del suo giovane allievo. L’amico filosofo, lo si sottolinea, si concentra sul bene dell’anima. Il semplice piacere fisico come aspetto che motiva una relazione viene integralmente derubricato. Il depotenziamento del piacere sessuale, come mèta relazionale prioritaria, è l’effetto di una focalizzazione dell’energia psichica verso la virtù che diventa l’unico obiettivo da perseguire mentre si perfeziona il legame amicale. Il filosofo è interessato al miglioramento dell’anima del giovane allievo indirizzandola verso la virtù e distogliendola dagli effimeri piaceri materiali. Il filosofo, in questo modo, diventa un formatore di cittadini a tutto tondo, in quanto prendendosi cura dell’anima dell’altro trasforma l’amicizia in  una virtù politica. Le persone grazie ad una cooperazione non competitiva maturano un livello morale che si riflette a beneficio della società intera.

I filosofi sono φίλοι non solo perché l’amicizia fra uomini virtuosi è la forma migliore dell’amicizia. Il rapporto che prende vita dalla comune ricerca dei filosofi è fondato sul Bene e sulla sapienza: il legame di amicizia che si instaura fra di loro è un legame duraturo che va al di là di un semplice sentimento di somiglianza. L’amicizia gratuita e spontanea così come si manifesta nella banalità della vita quotidiana, di conseguenza, non sembra avere uno spazio di senso in Platone. L’amicizia viene rapportata alla trascendenza della filosofia platonica; una filosofia fondata, come si è detto più volte, sul principio del Bene. Lo stesso rapporto di amicizia dipende dal Bene. L’amicizia fra i filosofi conferma e rafforza l’aspirazione irrinunciabile alla saggezza. La ricerca della sapienza richiede però un percorso in cui lo scambio con l’altro è fondamentale. Il filosofo ha un sensibilità politica sui generis in quanto è consapevole che l’esistenza dell’umanità diventerà più dignitosa se il Bene diventa un dato socialmente accessibile. Dunque, a ben vedere, il filosofo non si trincera da solipsista nella sua turris eburnea. Il sapiente deve condividere, diffondendola, la conoscenza della verità ed il suo comportamento virtuoso affinché gli altri possano imitarlo per accedere al mondo vero che è il mondo delle Idee.  È superfluo osservare che entrambi questi corollari utopici appaiono al lettore di oggi pie ed astruse illusioni, prive di ogni efficacia politico-culturale. Al tempo stesso, tuttavia, è impossibile negare che la politica e la cultura contemporanea di queste astruse illusioni hanno una profonda nostalgia.

Che dire per concludere? Diversi critici lamentano un senso di frustrazione che accompagna la lettura del Liside e questo lamento si accompagna ad una comparazione con altri dialoghi, meno frammentari e meno “cifrati” ove Platone sonnecchierebbe meno.  Questo approccio non interessa in questa sede perché la rivisitazione del Liside assume qui un doppio e più semplice significato. In primo luogo cercare di ricostruire il senso dell’esperienza amicale nel mondo intellettuale dell’antica Grecia che è pur sempre il mondo delle radici della nostra cultura. In secondo luogo riflettere in termini di un confronto tra l’amicizia platonica e più in generale, poi, tra l’amicizia “filosofica” antica e l’amicizia così come si configura nella nostra modernità.

Un dato certo, lo si è detto sopra, è che questo dialogo non risponde alla domanda “Che cosa è l’amicizia?” bensì tenta di chiarire i termini dell’interrogativo: “come si diventa amici l’un l’altro?”  In questo modo si arriva ad un’ulteriore domanda, importante, che cosa sia il Bene e che cosa sia degno, per primo, di amicizia e di amore. Si è visto qual è la risposta che ci offre Platone: il πρῶτον φίλον è il Bene, ed è il determinante primo dell’amore in quanto solo autentico oikeion, scaturigine di tutti gli altri φίλα.  Per il Socrate di Platone   si diventa amici diventando sapienti. Il mondo delle Idee stabilisce il legame amicale come legame fondamentale tra gli uomini. Come sempre è illuminante la sintesi di Reale che ingloba il tema nella cornice del pensiero platonico: «l’amicizia, e quindi l’amore degli uomini, non è altro che un riflesso, appunto a livello antropologico, della struttura metafisica di tutta quanta la realtà e dei suoi nessi fondativi»[19]. Qui, tuttavia, sembra opportuno un profilo di lettura che tenti di esplorare il significato dell’amicizia insieme ed al di là del sistema analitico platonico. Nella prima giovinezza, come comprovato da alcuni attori del dialogo, si manifesta un’amicizia naturale, spontanea che Socrate stigmatizza ironicamente, pur invidiandola. Liside e Menesseno non sono maturi per la φιλία filosofica. Devono ancora intraprendere la lunga strada della dialettica che reclama un interlocutore più anziano, in grado di indurli ad una maggiore riflessione. Socrate è costretto ad abdicare a questo suo ruolo naturale perché i rozzi pedagoghi, «come demoni», trascinano via i ragazzi. Il dialogo così si interrompe ma si sono egualmente poste le basi per una teoria di una forma di amicizia che sembra risolversi tutta all’interno di una costruzione teorica specifica, la costruzione configurata da Platone. Ciò nonostante si può sottolineare come questo complesso tentativo di esplorare la φιλία, ed i suoi contorni, si sia svolto, come viene esplicitamente dichiarato, in una «situazione di inebriamento» che ne ha inibito uno sviluppo adeguato in termini di definizione puntuale. Questa circostanza potrebbe però significare, più in generale, che l’amicizia non è facilmente definibile in una forma univoca. Che non è riconducibile ad un campo socialmente determinato e che ciò nonostante si tratta di una risorsa che ha un valore imprescindibile nella formazione di un’identità matura e naturalmente sia nelle relazioni intersoggettive sia nell’ambito della πόλις. Sotto questo profilo è agevole constatare che il legame amicale occupa uno spazio altrettanto importante nella modernità. E che anche nella contemporaneità una definizione di cosa sia l’amicizia resta un problema di non facile soluzione o meglio un problema da affrontare esplorando e comparando i contributi di alcuni pensatori tra cui i classici rappresentano una tappa ineludibile.

L’A. ringrazia i colleghi Silvestro Scifo e Valter Giacomel che, in amicizia, con i loro suggerimenti hanno tentato di migliorare queste pagine.

[1] Il termine philia sarebbe stato coniato e proposto per la prima volta alla riflessione filosofica da Pitagora (580-495 a.C. circa). Viene attribuita sempre a Pitagora l’idea che la philia è il legame che tiene insieme tutte le virtù.

[2] Nelle citazioni qui di seguito si fa riferimento a Platone, Liside sull’amicizia, Bompiani-Giunti, Firenze, 2018 [1°edizione 2015] con Prefazione generale ai dialoghi giovanili di Platone e Saggio introduttivo di Giovanni Reale.

[3]  Va notato che proprio nelle ultime righe del dialogo [Liside 223 A] Socrate si dice vecchio (γέρων ἀνήρ).

[4] Nonostante che La teoria platonica dell’amore di Léon Robin sia un testo del 1908 risulta tuttora un punto di riferimento interessante. Per la sua ricerca cronologica sul Liside,cfr. la edizione italiana, Celuc, Milano, 1973 alle pp.69-71.

[5] H. G. Gadamer, L’isolamento come simbolo di auto-alienazione in Elogio della teoria, Guerini, Milano, 1989, a p.100.

[6]  Nel Liside  ci  si imbatte nel termine νεανίσκος che indica, usualmente, un ragazzo tra i 14  ed i 18 anni.

[7] Si veda Enrico Peroli, Sul Liside di Platone in U. Galeazzi e D.Bosco (a cura di), Quid animo satis?, Aracne,Roma,2015,pp.64-5.

[8] La natura aporetica del dialogo supererebbe la sua negatività tramite la saldatura tra poesia e filosofia in vista dell’acquisizione di un bene fondamentale quale è l’amicizia; così secondo Enrico Piergiacomi, La ricerca poetica dell’amico. Sul richiamo dei poeti e alla poesia nel Liside di Platone in Syzetesis, IV, 2017, I, pp.33-55 http://www.syzetesis.it

[9] Reale, mentre avverte che questa terza categoria è stata affermata dai sofisti, ipotizza che Socrate l’avrebbe qui introdotta solo per prendersi gioco del loro modo di ragionare, cfr. Liside, cit., alla nota 39, pp.160-1.

[10]  Cfr. Maria Lualdi, Il Liside: emblematico messaggio di Platone sull’amicizia. Analisi ed interpretazione del dialogo in Platone, Liside, Rusconi, Milano,1998, a p.73. Ma anche la sua approfondita monografia Il problema della philia e il Liside platonico, Celuc, Milano, 1974.

[11] Cfr. Franco Ferrari, L’oikeion dell’anima e la conoscenza filosofica: il motivo gnoseologico nel Liside in «Philologica», 3,1998, pp.21-27.

[12] Cfr. L. Robin, La teoria platonica dell’amore, cit.

[13] Luigi Pizzolato, L’idea di amicizia nel mondo classico e cristiano, Einaudi, Torino, 1993 a p.45. Pizzolato contesta la concezione di Lualdi (cfr. infra) che propone la separazione tra amicizia ed amore, accompagnando questa critica con un’utile rassegna delle posizioni di autorevoli commentatori del pensiero di Platone da Buccellato a Hyland, da Fraisse a Dirlmeier, a Dugas, cfr. le pp.42-3.

[14] M.Lualdi, op.cit., alle pp.77-9. Lualdi ricorda che la critica nel Primo Amico ha visto il primum logico o, altre volte, il primum ontologico a seconda dell’interpretazione del Platonismo. Qui va solo sottolineato che il Platone del Liside ci avvisa che «tra il proton philon e le altre cose amiche esiste una incontrovertibile diversità di “natura”» ma non la specifica.

[15] M. Lualdi, op.cit., a p.87.

[16] Ivi., a p.88.

[17] Cfr. David Sedley, Is the Lysis a Dialogue of Definition? In «Phronesis», vol.34, n.1, 199, pp.107-108.

[18] Giovanni Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e Pensiero, Milano,1991(14°edizione), a p.457.

[19] G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, cit. a p.461.

 

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