Razza: termine improprio per una realtà inesistente

Nelle ultime settimane una serie di episodi hanno riportato l’attenzione dell’opinione pubblica sull’appropriatezza dell’uso del termine ‘razza’ nel descrivere la diversità umana e, più in generale, sul suo effettivo significato applicato alla nostra specie. Si è ritenuto quindi opportuno offrire alcuni elementi oggettivi che consentano di far capire come mai ad oggi non è più possibile, ma soprattutto è scientificamente sbagliato, utilizzare il termine razza applicato alle varie popolazioni della specie Homo sapiens.

Nella sistematica zoologica e botanica il termine razza è una categoria che definisce gruppi biologicamente distinti, chiaramente delimitati e univoci all’interno della stessa specie. Nel XIX e nel XX secolo le ricerche degli antropologi, nel tentativo di inquadrare la diversità biologica delle popolazioni umane viventi, evidente soprattutto nel colore della pelle e nei caratteri morfologici del cranio e della faccia, avevano portato ad identificare delle razze anche nella nostra specie.

Le difficoltà di questi tentativi di classificazione furono evidenti da subito, in quanto nel corso del tempo vennero proposte classificazioni le più disparate che riconoscevano un numero molto diverso di razze che erano spesso non confrontabili. Il sistema classificatorio rimase tuttavia in uso e si estese ad includere aspetti molto distanti dalla biologia, quali tradizioni culturali e religiose.

Fu soltanto negli anni ’70 del secolo scorso che l’insieme delle numerose ricerche condotte sulla genetica delle popolazioni umane mise in evidenza una verità inconfutabile: la variabilità genetica all’interno di ogni popolazione è superiore a quella tra popolazioni, rendendo così impossibile tracciare dei limiti netti che consentano di separare chiaramente una popolazione da un’altra, e, a maggior ragione tra gruppi continentali o razze.

Questa condizione, per cui all’interno della specie Homo sapiens vi è una relativamente limitata variabilità genetica tra popolazioni diverse, perfino tra quelle distanti geograficamente, è il risultato della nostra (tutto sommato breve) storia evolutiva: la specie Homo sapiens si è originata in Africa circa 200.000 anni fa e, da qui, a partire da circa 70.000 anni fa, varie popolazioni hanno cominciato a diffondersi, in ondata successive, verso le altre regioni della Terra. Questo arco di tempo è stato troppo breve per consentire, a livello genetico, la comparsa di profonde differenze tra le varie popolazioni tali da poterle identificare come facenti parte di razze separate, come nel caso di altre specie animali. Inoltre, i continui processi di diffusione e migrazioni dei gruppi umani nel corso della preistoria e della storia hanno contributo ad un costante “rimescolamento genetico” (flusso genico) che ha ulteriormente ridotto le diversificazioni che si erano venute a creare nel tempo.

Le evidenti differenze esistenti oggi tra popolazioni di aree geografiche diverse sono da attribuire in larga misura a fenomeni di adattamento a specifici contesti ambientali, come la pelle scura a difesa della intensa radiazione solare in ambienti equatoriali, fissatesi poi nel patrimonio genetico e trasmesse alle generazioni successive. Quindi sono fattori di tipo ecologico da considerare alla base della marcata bio-diversità umana.

È alla luce di queste considerazioni che già da tempo gli antropologi hanno abbandonato l’uso del termine razza in favore del termine popolazione come unità evolutiva; ed è per lo stesso motivo che in tempi recenti la comunità degli antropologi, in Italia e nel resto del mondo, ha fatto appello perché il termine razza non venga più utilizzato. In particolare, nel nostro paese l’iniziativa si è estesa in considerazione del fatto che, come è noto, il termine compare nell’articolo 3 della nostra Costituzione (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. …”) ed è per questo motivo che già nel 2016 due società scientifiche di antropologi (Associazione Antropologica Italiana e Istituto Italiano di Antropologia) hanno approvato una mozione che invita alla sostituzione del termine ‘razza’ nella Costituzione e in tutti gli atti ufficiali della Repubblica Italiana. Il testo della mozione lo si può leggere su questo sito (http://aai.unipr.it/documenti/att/firenze2017_2.pdf ). Più di recente, sull’onda degli eventi delle ultime settimane, la comunità intera degli antropologi (biologici e culturali) ha sottoscritto un documento contro l’improprio utilizzo del concetto di “razza” nella nostra specie.

Il testo del documento è riportato qui sotto integralmente.

Razza e dintorni: la voce unita degli antropologi italiani

Per noi antropologi c’è un dato di fatto, che è una qualità e una ricchezza imprescindibile e degna di essere indagata: la diversità biologica e culturale degli esseri umani. Essa attraversa i gruppi e differenzia gli individui al loro interno. Grazie a tale multiforme diversità, la nostra specie, Homo sapiens, è riuscita ad adattarsi e a prosperare in ambienti molto differenti e ad alimentare quella creatività che caratterizza gli esseri umani in quanto esseri sociali. Gli individui, con i loro geni e le loro istanze culturali, si sono incontrati e confrontati fin dalle nostre origini, dando vita a forme di umanità plurali, diversificate, in continua evoluzione e trasformazione. Nulla di più errato, quindi, che pensare l’umanità reificata in gruppi dati una volta per tutte; insiemi irrigiditi e incapaci a sviluppare forme di convivenza, scambio e condivisione. Ma qual è la reale entità e il significato della diversità? Studiandola, abbiamo capito che le differenze genetiche tra gli individui sono in realtà molto meno pronunciate e strutturate di quanto si possa percepire guardando semplicemente al colore della loro pelle, alle diverse abitudini e abilità o ascoltando le loro lingue. Così come, non vi sono basi ereditarie che giustificano l’esistenza di “gerarchie sociali” basate su supposte ineguaglianze cognitive o comportamentali tra gruppi umani. Al contempo, le diversità culturali rimandano a una selva di somiglianze piuttosto che a una tragica serie di muri e barriere.

Gli antropologi (biologici e culturali) condannano, pertanto, qualsiasi uso strumentale di categorie che sono al tempo stesso prive di fondatezza dal punto di vista genetico e potenzialmente discriminatorie, quali le “razze umane” o le “culture essenzializzate” (ovvero intese come unità definite e rigide), nel discorso scientifico, in quello pubblico e nelle pratiche sociali.

Lascia un commento