Luciano Lama. A cento anni dalla nascita

Forse ai millennials il nome di Luciano Lama non dice nulla. È del tutto sconosciuto. O forse, nei casi migliori, è arrivata a questi giovani la scarna menzione di Lama, sindacalista italiano della seconda metà del XX secolo: una scarna didascalia sotto una fotografia. Eppure Lama, del quale ricordiamo il centenario della nascita il 14 ottobre prossimo, è stato un grande protagonista della nostra storia recente. Dopo Giuseppe Di Vittorio è stato il più grande sindacalista italiano del secondo dopoguerra, nella stagione cruciale dell’autunno caldo, della centralità operaia, del cosiddetto secondo biennio rosso. Del resto, lo stesso Lama riconobbe di avere imparato il mestiere da Di Vittorio, sedendo accanto a lui come uno scolaretto sul banco di scuola, ebbe a dire.

Eppure era lontano mille miglia dal suo maestro. Di Vittorio era un bracciante agricolo pugliese, autodidatta o giù di lì. Era stato educato fin da bambino al duro lavoro dei campi e da meridionale aveva interiorizzato, dalla prima infanzia, cosa significasse, nelle feroci gerarchie sociali del Mezzogiorno, appartenere alla classe degli umili. Lama era un borghese, romagnolo, figlio di un capostazione, laureato sotto mentite spoglie col nome di battaglia, Boris Alberti, al “Cesare Alfieri” nel ’43, in tempi di occupazione tedesca. Ma la tesi di laurea sulle case dei mezzadri, discussa con un professore antifascista, Giovanni Lorenzoni, ucciso dai fascisti mentre cercava di salvare la figlia Tina, staffetta partigiana, anch’essa martire della Resistenza, la dice lunga sui legami con la sua terra di origine e col suo popolo.

Lama era un uomo duro, ma leale. Era forgiato col ferro e col fuoco, prima come ufficiale di complemento del regio esercito e poi, dopo il 25 luglio ’43, come capo di stato maggiore della 29° divisione GAP di Forlì. Apparteneva ad una genia di uomini dei quali si è persa memoria. Ho avuto la fortuna di conoscerne qualcuno: Sandro Pertini, Alberto Predieri, lo stesso Luciano Lama. Per loro la scelta di etica civile e politica valeva la vita.

La grande novità per il sindacalismo italiano fu che un borghese e laureato arrivasse ai vertici della maggiore Confederazione italiana. Perché se, fin dalle origini, i dirigenti dei partiti di sinistra erano prevalentemente dei borghesi, da Turati a Togliatti, il sindacalismo alla Di Vittorio, alla Rigola ma anche della autodidatta, romagnola anch’essa, Argentina Altobelli aveva prodotto piuttosto una classe dirigente selezionata dalla propria base. Lama non proveniva dai quadri del sindacato. Il suo antifascismo, nelle file socialiste, era prettamente politico. Proprio perché socialista ebbe la carica di segretario della Camera del Lavoro di Forlì, dopo la Liberazione. La prefettura era andata al Partito d’azione e il posto di sindaco a un comunista. Così nella distribuzione delle cariche a lui spettò la CdL. Poi nel ’46 i suoi orientamenti fusionisti, a sinistra, lo portarono ad abbandonare lo Psiup per il Pci.

Si rivelò ben presto un sindacalista di razza e una personalità carismatica. Dalla terra di Romagna aveva tratto il suo essere uomo di parte, duro nella lotta e nelle trattative, ma a un tempo pragmatico e concreto, sempre dotato del senso della misura e del limite. Il suo brillante cursus honorum passò per la tappa obbligata della segreteria generale della Fiom, la Federazione allora traente del movimento operaio e centrale nel disegno unitario. Poi nel marzo 1970 approdò alla segreteria generale della Cgil e fu di nuovo protagonista del processo unitario nei convegni fiorentini del 1971. Ma quando percepì che la riunificazione delle tre Confederazioni rischiava il fallimento, con conseguenze nefaste per il sindacato, con pragmatismo e con tempestività virò verso la Federazione Cgil Cisl e Uil che tenne a battesimo nel luglio 1972. Fu la sua creatura. Non era la fusione, non si riproponeva il patto di Roma del giugno ’44, ma era uno strumento di coordinamento stretto fra le segreterie generali delle tre maggiori Confederazioni che rafforzò la compattezza del sindacato e la sua leadership.

La sua statura è dimostrata dal sapersi non piegare agli idola fori del tempo. L’egalitarismo senza distinzione di competenze e di meriti era uno di questi. Alla viglia dell’autunno caldo, nel giugno 1969, al VII congresso nazionale della Cgil disse esplicitamente che “a una data capacità professionale deve corrispondere un certo livello retributivo”. Da grande leader aveva il coraggio della impopolarità.

Con l’accordo sottoscritto nel gennaio 1975 con Agnelli, presidente di Confindustria, sembrò contraddirsi. Il punto unico di scala mobile, trimestralizzata per tutti, garantiva nel tempo la tutela delle retribuzioni più basse comprimendo le altre per il cuneo fiscale crescente. Era l’esaltazione dell’egalitarismo che portò sei anni dopo alla rivolta anti sindacale dei quadri Fiat e alla marcia dei quarantamila a Torino. Era iniziato il declino del sindacato che seguiva di pari passo l’esaurirsi della centralità operaia. Con grande capacità autocritica e in maniera icastica, come soleva fare, Lama sentenziò: “fu un errore”. Certo lo fu per il sindacato che a fronte di tanto esasperato automatismo perse margine di contrattazione. Non solo. L’accordo accelerò l’inflazione. Ma continuo a pensare che il giudizio storico su quell’accordo sia più complesso. Esso favorì la tenuta della classe operaia e limitò la capacità delle Brigate rosse di infiltrarsi nel mondo del lavoro in tempi in cui la minaccia terroristica era incombente.

D’altra parte, Lama fu avverso a Berlinguer quando ipotizzò l’occupazione della fabbrica davanti ai cancelli Fiat. E si scontrò col segretario del Pci quando, dopo il decreto Craxi del febbraio 1984 che precostituiva, limitandoli, i punti di scala mobile, Berlinguer volle fare partire il referendum sulla scala mobile. Lama aveva compreso che era una strategia comunque perdente. A fronte di una sconfitta, il sindacato ne sarebbe uscito delegittimato. A fronte di una vittoria sarebbe stato danneggiato il paese intero. Bisognava trattare e trovare un accordo. Fu inascoltato, ma ebbe nuovamente ragione, da uomo pragmatico e concreto, mentre assisteva alla fine della sua creatura, la Federazione Cgil Cisl Uil. Oggi è difficile comprendere cosa volesse dire per un sindacalista di quella parte politica scontrarsi col segretario del Pci. Lama aveva di nuovo fatto tesoro della lezione di Di Vittorio che ebbe il coraggio di dissentire pubblicamente da Togliatti sulla repressione ungherese del ’56. Fu la fine della sua carriera di sindacalista, mentre si veniva esaurendo quel mondo di fabbrica che era stato il suo. Si passava dal lavoro, che presupponeva unitarietà di lotta, a “i lavori” differenziati e frantumati. Avanzava il terziario e finiva la centralità operaia. La società diveniva “liquida” e individualista, anche in virtù delle nuove tecnologie. Il mondo di Lama era finito.

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