20 settembre 1870

Se a uno studente del primo anno di Università si chiedesse, prima di aver sostenuto l’esame di storia contemporanea, cos’è la questione romana riceveremmo per lo più queste risposte: “non so, non leggo i giornali”: i più. Ovvero, “è la questione della Raggi che vuol tornare a fare il sindaco di Roma”. Qualcuno magari azzarderebbe che si tratta della “irrisolta questione dello smaltimento dei rifiuti urbani a Roma”. Ben pochi centrerebbero il problema dicendo che in essa si riassume uno dei grandi temi del Risorgimento nazionale. Eppure, potremmo aggiungere che si tratta di un tema tanto grande che, come ci ricorda Machiavelli, ad esso è da attribuirsi il ritardo plurisecolare della nostra unità nazionale. Infatti, lo Stato Pontificio ha avuto nei secoli forza sufficiente ad impedire che chicchessia realizzasse l’unità della penisola senza avere la capacità di unificarla sotto il proprio dominio.

Questo chicchessia si è affermato nel XIX secolo col Regno di Sardegna e ha prevalso sulle forze avverse per un complesso di motivi che hanno a che vedere con le contingenze dell’ora e con il radicale cambiamento del contesto storico nel quale operò. Quest’ultimo origina dalla grande rivoluzione, quella francese dell’’89 che ha avuto tante valenze delle quali qui non possiamo discorrere, ma fra esse una che riguarda direttamente il tema: l’affermazione del principio che il cittadino è uguale di fronte alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di religione e via dicendo.

Intendiamoci, la grande rivoluzione ha dato avvio a un processo assai contrastato, con cospicui ritorni di fiamma. Anzi, i ritorni di fiamma sono tali a tutt’oggi: basta vedere quanto sia difficile coniugare il diverso colore della pelle piuttosto che le differenze di genere col principio dell’uguaglianza. A dimostrazione che la conquista dell’’89 è da riconquistare tutti i giorni. Ma allora il principio è stato affermato e con esso, che è un principio di laicità, tutti ci dobbiamo confrontare. Quindi, dopo l’’89 possiamo dire che lo Stato Pontificio come stato teocratico ha cominciato ad avere i giorni contati anche se nessuno poteva dire quanti fossero.

L’establishment vaticano che aveva una vocazione reazionaria non aveva alcuna intenzione di rinunciare al principio dell’investitura divina della sovranità temporale del pontefice. I più ritenevano che la caduta del potere temporale del papa avrebbe comportato anche la crisi della sua autorità spirituale come capo della cristianità. Quindi il dominio temporale veniva difeso a spada tratta. Quando, poi, la curia cardinalizia e Pio IX si resero conto che il vento della modernità stava divenendo inarrestabile e la fine del potere temporale si stava avvicinando, emanarono il Sillabo, un documento annesso all’enciclica Quanta cura del dicembre 1864, ove venivano elencati gli errori dottrinari del tempo che avevano tutti al fondo la “presunzione” della modernità di separare il cittadino dal credente e, di conseguenza, sottrarlo all’autorità della Chiesa romana. Non solo. Prima della fine, il Concilio Vaticano I sancì l’infallibilità dottrinale del pontefice quando parla ex cathedra, ossia con atti ufficiali e nel suo ruolo di capo della Cristianità. Era un modo per dire, a posteriori, che quanto scritto nel Sillabo era verità assoluta e incontestabile.

Così i bersaglieri del generale Cadorna che il 20 settembre 1870 entrarono a Roma attraverso la breccia di Porta Pia compirono un’impresa dalla portata militare modesta, ma dal significato istituzionale, politico e civile colossale. D’un colpo, decretarono che i sudditi del papa divenivano cittadini di uno stato laico che guardava alla religione come un fatto privato, attinente alla coscienza individuale. Gli ex sudditi del papa ne furono felici, ma Pio IX e la curia cardinalizia dichiararono guerra ad oltranza allo Stato italiano, nonostante che quest’ultimo avesse garantito e tutelato le funzioni del pontefice come capo della cristianità con la legge delle Guarentigie.

Questo conflitto indebolì lo stato italiano perché il papa impegnò tutta la propria autorità e credibilità internazionale per delegittimarlo. La questione romana, che si era chiusa come questione di Roma e del Lazio ancora non annesse alla sovranità territoriale italiana, assunse i caratteri del conflitto permanente fra lo stato e la Chiesa.

In realtà, l’Italia unita aveva fatto un gran dono al papa, togliendogli gli oneri della gestione del potere temporale e liberando la sua autorità religiosa. Ma i papi tardarono molto a riconoscere questi meriti e ci volle un secondo Concilio Vaticano e un papa non dottrinario, ma saggio come Giovanni XXIII per azzardare qualche riconoscimento: cento anni dopo il Sillabo. Non contraddicendolo ufficialmente, ma superandolo, come fa di norma la Chiesa che, come tutti noi, vive nella storia, ma, a differenza delle altre realtà storiche, non appartiene alla storia. O, almeno, così ritiene.

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