Ritornano le guerre commerciali?

Mentre la situazione evolve di momento in momento, l’inizio di guerra commerciale innescata dalle mosse di Trump sul fronte delle tariffe spinge a cercare di capire, oltre l’orizzonte quotidiano, verso quali scenari siamo proiettati. Ciò che per ora si intravede è (a) una spinta compulsiva ad accontentare a ogni costo la parte del proprio elettorato legata a settori produttivi in declino, (b) una tattica di continuo rialzo della minaccia per strappare vantaggi in sede di negoziato possibilmente bilaterale, (c) una apparente assenza di linea strategica a lungo termine, visto che lo strumento scelto ha rapporti assai dubbi con gli obiettivi dichiarati. Sui primi due punti conta il carattere del personaggio e c’è poco da fare. Sul terzo, c’è spazio per un esame razionale della situazione e per la speranza che un’amministrazione professionalmente esperta sappia contenere le pulsioni personali e limitare i danni.

Gli obiettivi dichiarati si collocano a due diversi livelli. Primo, punire la Cina per il presunto “dumping sociale” realizzato attraverso il commercio e per il sistematico furto di tecnologia perpetrato ai danni degli investitori esteri. Secondo, e in chiave “US contro tutti”, ridurre significativamente se non chiudere il disavanzo commerciale persistente da tempo immemorabile per rilanciare l’industria domestica.

Sul piano anti-cinese, le pratiche illecite di furto di tecnologia sono un fatto e costituiscono violazione di norme del WTO, alla cui appartenenza peraltro la Cina sembra non voler rinunciare; il dumping sociale è invece tutto da dimostrare, e anche se in qualche misura si è realizzato va bilanciato con i vantaggi che il consumatore americano ha tratto dal commercio con la Cina. In ogni caso non sembra che l’imposizione di tariffe sia un rimedio, visto che da subito la Cina appare intenzionata a rispondere colpo su colpo anziché ravvedersi. Guerra commerciale significa proprio questo, l’innalzamento cumulativo di barriere tariffarie reciproche che danneggia entrambi (in questo caso, per ora e fortunatamente, solo due) i contendenti. Il volume del commercio si restringe, e invece di tornare allo status quo pre-esistente si peggiora la situazione rispetto allo status quo attuale: si contrae l’attività produttiva, aumentano costi e prezzi. E’ la ragione per cui da tempo la comunità internazionale ha ripudiato le tariffe in quanto strumenti primitivi e autolesionistici di regolazione delle controversie commerciali, preferendo gli accordi bi- o multi-laterali. La cultura economica US, almeno fino ad ora, appariva ancora traumatizzata dall’esperienza disastrosa delle tariffe introdotte nel 1930 con il famigerato Smoot-Cowley Act nell’ onesto intento di attenuare gli effetti della grande crisi. Le reazioni di Wall Street al momento in cui Trump ha cominciato a passare dalle parole ai fatti mostrano chiaramente che il trauma non è superato.

Questo ci porta direttamente all’altro obiettivo, il rilancio dell’industria domestica. Qui è all’opera un malinteso di fondo: il livello di attività domestica è legato positivamente al volume del commercio col resto del mondo più che al saldo fra vendite e acquisti. Anche ammesso (ed è tutto da dimostrare) che una politica tariffaria aggressiva faccia aumentare il saldo, se contemporaneamente le inevitabili rappresaglie portano a ridurre il volume, il rilancio sperato non ci sarà, anzi è più probabile che ci sia una riduzione anche dell’attività domestica. Questo è un punto che anche i nostri “No global” europei dovrebbero meditare. Dalla globalizzazione non si esce per tornare al mondo di prima, si esce solo per entrare in un mondo globalmente più povero rispetto a quello di ora.

E infine, c’è da chiedersi se sia così desiderabile trasformare un disavanzo commerciale in avanzo o comunque avere un saldo esportazioni meno importazioni più elevato. Il saldo commerciale è una delle determinanti dei flussi netti di capitale fra un paese e il resto del mondo: per definizione, un saldo negativo è finanziato da prestiti esteri, un saldo positivo finanzia prestiti fatti all’estero. Il saldo cronicamente negativo del commercio US significa un flusso netto positivo di capitali in entrata anno dopo anno, cioè la possibilità per l’economia US di mantenere un livello di investimenti sistematicamente maggiore del risparmio interno. Portare il saldo a zero, o trasformarlo in positivo, significa prosciugare questa fonte di capitali che gli US hanno dimostrato di saper bene investire al proprio interno, o addirittura trasformarsi da importatore in esportatore netto di capitali, investendo parte del proprio risparmio nel resto del mondo. Un cambiamento epocale di struttura interna e di ruolo nel mondo, ma quanto coerente con il “make America great again” che Trump rivendica a ogni piè sospinto?

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