Annie Ernaux, Nobel per la letteratura

Negli anni settanta, la lettura dei testi di Pierre Bourdieu –  ha scritto Annie Ernaux su “Le Monde” alla sua morte-  fu per me un violento “choc ontologico”: perché mandò in pezzi l’idea che avevamo di noi stessi e degli altri nella società. Fu, aggiungeva, l’irruzione di una presa di coscienza senza ritorno sulla struttura del mondo sociale – come lo era stata la lettura di Simone de Beauvoir sulla condizione delle donne. Fu, infine e soprattutto, un incoraggiamento a dire, scrivendo, «ciò che Bourdieu chiamava le refoulé social»: il non-detto della società.

Questa viva consapevolezza, questo interesse profondo per la società in cui tutti viviamo muove la scrittura di Ernaux., alla quale è andato il recente e meritatissimo Nobel, e che peraltro era già stata ultrapremiata anche in Italia. I suoi libri dunque sono prima di tutto appassionanti romanzi autobiografici, ma sono anche testi di grande spessore sociologico, centrati su un soggetto al tempo stesso autobiografico e collettivo; e insieme camaleontici reperti etnografici e storici di una generazione, la sua, nata negli anni quaranta (per la precisione, lei, nel 1940 nella Seine Maritime, infanzia a Yvetot in Normandia, e poi Parigi).

La scrittrice dichiarava, con la limpidità stilistica come un coltello affilato che è la sua, i propri “maggiori” e i propri intenti. Nasce qui la sua invenzione di una particolare forma di autobiografia, che racconta nel profondo, a partire dal proprio vissuto e dai propri sentimenti, la Storia e la società del suo tempo, e i suoi tabù. Il suo “io” è sempre un “noi” che vuole dire ciò che la società non riesce a dire o che nasconde dentro il linguaggio. Sostituire parole come “ambienti modesti, gente modesta” e “classi superiori” con le parole: “dominati” e “dominanti” significa infatti, come scriveva Bourdieu, cambiare tutto.

Nei suoi libri la prima persona è quasi sempre plurale e il tempo è l’imperfetto. É impossibile non riconoscersi nel suo libro più noto, Gli anni (2008), nelle “cose” che costituiscono questa particolare autobiografia dal dopoguerra a oggi. Una autobiografia fatta delle cose e delle mentalità nelle quali ogni vita è immersa che diventa anche una sorta autobiografia collettiva: libri, canzoni, vestiti, le metamorfosi degli usi e costumi, i discorsi, il mutare della lingua, delle mode, dei giovani, delle filosofie.

Riconosciamo qui l’invenzione formale di alcuni straordinari scritti di Georges Perec, come Les choses (1965) e Je me souviens (1978), commosso e commovente, spassoso e intelligente elenco di come eravamo, del quale l’autore scriveva che «non sono esattamente ricordi personali, ma pezzettini di quotidiano, cose che, in tale anno o in talaltro, tutte le persone di una stessa età hanno vissuto, hanno condiviso, e che poi sono scomparse, sono state dimenticate».

Di questi elenchi la nostra scrittrice ha scritto con straordinario acume in un testo del 2018 inedito ma presente sul sito della University of St Andrews, L’art d’écrire: «Les Choses opérait une sorte de renversement, dire non pas le général par le particulier – comme il est admis que fait la littérature – mais le particulier par le général.»: con Le cose Perec operava una sorta di rovesciamento, dire non il generale attraverso il particolare, come si sa che fa la letteratura, ma il particolare attraverso il generale.

E due o tre pagine di elenchi appunto, aprono, ma anche chiudono, Gli anni: quasi un dichiarato omaggio a Perec, come Guardale luci, amore mio, dove l’autrice registra per un anno le sue visite regolari al supermercato: la nuova cattedrale, o la nuova piazza, delle comunità.

Pieni di passione ma implacabili sia con se stessa che con la società, nei vari titoli usciti da Gallimard (tradotti dal suo bravo traduttore che ha il merito di averla introdotta in Italia, Lorenzo Flabbi per  le edizioni L’orma) Ernaux racconta sentimenti e eventi personali che non si dovrebbero raccontare: l’annullarsi in una passione amorosa (Passion simple, 1991); l’essere completamente asserviti a una insopprimibile gelosia (L’occupation, 2002); la condizione “normale” di moglie e madre nella quale il lavoro di insegnante intrecciato alla spesa, ai pasti, agli orari dei figli, al bagnetto finisce per congelare slanci e curiosità della gioventù (La femme gelée, 1981).

Ma anche Memoria di ragazza, di una ragazza del’58, o il terribile L’evento, sconvolgente memoria di un aborto quando l’aborto era illegale, o La vergogna, dove la piccola dodicenne scopre la gerarchia sociale, e in essa la posizione infima dei suoi; e perfino Una donna, storia della madre appena scomparsa che, come dice l’ottima quarta di copertina si pone “nella luminosa intersezione tra Storia e affetto, indagato con un secco dolore”.

Fra tutti, più sul versante Bourdieu che su quello Beauvoir, ricordiamo volentieri il bellissimo Il posto del 1982 (2014 da noi): che narra impeccabilmente goccia a goccia il doloroso ma inevitabile passaggio di classe sociale della figlia intellettuale e scrittrice, e il distacco, pieno di pena, dai genitori, col loro piccolo negozio, il loro mondo e i loro modi – quella della propria infanzia.

Ernaux, appassionata studiosa di filosofia, scrive ne Gli anni: «Noi, a cui era stato prescritto nei testi di di Marx e Sartre di cambiare il mondo – noi che nel ’68 ci avevamo creduto – , in quella “nuova filosofia” non scorgevamo nessuna speranza.». Nel perimetro segnato da Gli anni passa la vita di una generazione, fino all’impercettibile mutazione della generazione successiva, quella dei figli che «tenevano il mondo a distanza su un registro ironico. Le loro battute pronte, la velocità e la scioltezza delle loro repliche ci affascinavano e ci mortificavano, temevamo di sembrare lenti e pesanti …».

E chi, di quella generazione, potrebbe non riconoscervisi? Questa è la particolarissima qualità dei suoi libri, che ci attrae e in fondo ci rassicura.

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