Abdulrazak Gurnah: ritratto di uno scrittore postcoloniale di lingua inglese premiato con il Nobel

Dopo diciotto anni  dal premio  conferito a  J.M. Cotzee, il Nobel per la letteratura  torna in Africa, in ambito anglofono.

Abdulrazak Gurnah nasce infatti nel 1948 nello Zanzibar, erede del grande colonialismo inglese, ma giovanissimo  va a completare gli studi in in Inghilterra. Tra il 1980 e il 1982, insegna lingua inglese in Nigeria, all’Università di Kano, e poi, dal 1985, va a insegnare letteratura inglese in Inghilterra, alla University of Kent, a Canterbury, dove nel frattempo studia per conseguire un master.

Quando comincia a scrivere fiction,  si dimostra subito ossessionato – lui “figlio spodestasto”, come avrebbe detto Amleto, dell’imperialismo britannico  – da problemi di identità e dislocazioni spaziali; con il surrogato di scorie di colonialismo e schiavitù. I personaggi – sempre fittizi, mai autobiografici (almeno a suo dire) – dei  suoi romanzi cercano disperatamente di costruirsi nuove soggettività, mediando tra passato, presente e futuro, all’interno di una visione critica e arcigna dell’impatto dell’immigrazione in nuovi contesti geografici e sociali. Secondo Gurnah, il quale, come i suoi personaggi, ha vissuto l’esperienza dell’immigrazione (dalla  nativa colonia dello  Zanzibar all’Inghilterra ex-imperiale) l’identità coinvolge il problema primario di un perpetuo cambiamento tra antichi soggetti ben identificaibili e nuovi, imprevedibili soggetti che si incontrano all’interno della migrazione.

Concetti di immigrazione e dislocazioni umane (sia dall’ Africa all’Europa, sia all’interno del continente africano) risultano centrali nella narrativa di Gurnah. Abile psicografo, Gurmah riproduce l’intricata rete di emozioni, codici sociali, paure e fraintendimenti che informano una soggettività tanto cosmopolita quanto sempre inevitabilmente precaria. La sua agile e affascinante narrazione  si immerge nel disorientamento culturale dell’immigrazione, nel tentativo di imporre un minimo di stabilità sociale e forma culturale al romanzo, quale “casa”, dimora nell’esilio. Sullo sfondo, c’è la diaspora nella storia dello Zanzibar, e gli intrighi culturali divengono paradossali oggetti di studio sull’ansia e le ferite psichiche inferte dalla colonizzazione. I narratori di Gurnah si fanno portavoce delle esclusioni e i silenzi di un mondo altro, manifestandosi testualmente in improvvisazioni linguistiche, geografiche e talvolta anche di stampo  musicale.

Migrazione fisica e  spostamento culturale informano praticamente tutti i suoi romanzi, a partire da Memory of Departure, del 1987, dove l’autore analizza le inquietanti motivazioni del protagonista sottese alla sua decisione di lasciare il villaggio africano nativo per avventurarsi nel più politicamente strutturato Kenia, per potersi poi lanciare verso il mondo occidentale. Pilgrim’s Way, del 1988, il suo secondo romanzo, ritrae le lotte, psicologiche e fisiche, di uno studente mussulmano della Tanzania contro la cultura razzista degli skinheads di Canterbury, nel cui ospedale ha trovato lavoro. Mentre Paradise, del 1994, il suo romanzo più celebre, nominato per il Booker Prize of Fiction, parte da una diversa prospettiva,  ripercorrendo il viaggio di  un ragazzo africano dalla fatiscente dimora dei genitori alla casa di un ricco zio, cui è stato dato in pegno per annullare, con il suo lavoro non retribuito, i debiti del padre, in una faida famigliare tutta tribale, destinata però ad estendersi ai traffici più o meno legali della struttura tribale collettiva.  Admiring Silence (1996), mentre narra la storia di un emigrato dallo Zanzibar a Londra, e del suo ritorno in patria dopo più di venti anni, scava con acuta sensibilità in quella specie di limbo che è il tentare di vivere tra due culture opposte, cui corrispondono due famiglie diverse, quella abbandonata  di origine, e quella acquisita in Inghilterra, trovandosi alla fine estraneo a entrambe, in un eterno, doppio esilio. By the Sea (2001) “mette in scena” – per così dire –  in una dimensione  implicitamente metadrammatica,  il confronto/scontro tra due soggetti esemplari di immigrati; un insolito, straordinario vecchio in ricerca di asilo politico,  appena approdato ma “spodestato” nel Regno Unito, e un giovane ricercatore africano ormai anglicizzato, mescolano storie individuali inaspettatamente ricche di tangenze emotive reciproche.

Quel che collega sapientemente tutta la narrativa di Gurnah è – a questo punto pare ovvio – il tema della condizione inevitabilmente problematica di spostarsi da un luogo a un altro (vuoi all’interno dell’Africa, vuoi, soprattutto, dal continente africano a quello europeo). E tuttavia l’autore rivendica che la sua narrativa non è, non intende essere, autobiografica. In una intervista del luglio 2018, Writing and Life (disponibile on-line sul sito della rivista Wasafiri), non elude il problema dell’autobiografismo: “Quando lasciai casa a diciotto anni, non avevo grandi ambizioni. Era un momento di grande ansia, uno stato terrificante di umiliazioni prevedibili. Volevo solo andarmene, per trovare sicurezza e autorealizzazione da un’altra parte”. Però ci tiene ad ampliare la (propria) prospettiva di giovane emigrante in un contesto socio-culturale di maggiore, forse massima, estensione: “Il colonialismo giustificava e legittimava se stesso stabilendo riferimenti a gerarchie di razza, di inferiorità di conoscenze e istituzioni, persuadendo subdolamente il colonizzato a non presentare mai il conto”. Ma, come Dante in esilio, il migrante colto o acculturato può avvalersi di una duplice visione. Per un verso, “viaggiare verso l’ignoto procura un senso di distanza e capacità di prospettiva, un senso di amplificazione che facilita la riflessione, ovvero l’ambito privilegiato di un narratore”. Per un altro verso, l’emigrato intellettuale è in grado di appoggiarsi alla “grande tradizione” letteraria: “Credo che un autore possa scrivere dopo aver letto tanto, poiché solo nel processo di accumulazioni e accrescimenti, di eco e ripetizioni, trova il registro giusto che gli consente di scrivere”.

Gurnah non è stato molto tradotto nel continente europeo, Italia compresa, e perciò la sua conquista del Nobel ha creato un po’ di smarrito stupore nella comunità accademica, al di fuori degli specialisti di letteratura post-coloniale anglofona. Detto questo, Gurnah è un grande scrittore, un profondo conoscitore della mente umana, dentro e oltre le problematiche specificatamente coloniali e post-coloniali. Sarebbe opportuno, attraverso il suo prestigiosissimo premio, tenere a mente  quanto il nativo Zanzibar non sia solo né una meta turistica di appassionati di kitesurfing, né nemmeno la patria del meraviglioso, indimenticabile Freddie Mercury dei Queen.

Lascia un commento