Europa napoleonica

“L’epoca più pura e fulgida della sua vita”, scrive Stendhal nella sua Vita di Napoleone, a proposito della prima campagna d’Italia, quella che nel giovanissimo generale Bonaparte aveva rivelato al mondo l’erede di Alessandro e di Cesare. Fu pure, allora, il momento in cui il legame di Napoleone con l’Italia, già intrecciatosi nelle sue origini corse, in quel nome stravagante per cui lo prendevano in giro i suoi compagni di collegio, in quel cognome che egli si affrettò ad arrotondare in modo che suonasse più accettabile all’orecchio francese, prese un carattere del tutto originale.

L’Italia non fu, probabilmente, il cuore del suo disegno strategico. La dimensione mediterranea della penisola contò molto nello scontro “globale” con la potenza inglese, ma l’egemonia europea finì col fargli preferire le linee continentali della tradizione politica francese: il Reno, la Germania, i Paesi Bassi e il mare del Nord. Non sappiamo, del resto, ancora oggi quale peso dare alle sue ripetute dichiarazioni di un’Italia unita, alle quali non corrispose mai nulla di veramente concreto, tanto più dal momento in cui il progetto imperiale, un progetto dunque europeo, cominciò ad assumere nella sua mente una imprecisa, ma solida volontà di realizzazione.

L’Italia rimase, però, proprio a partire dalla campagna del 1796, il luogo nel quale riuscì meglio a Napoleone apparire come l’erede della Rivoluzione, come l’uomo che, per dirla come Victor Hugo aveva “incatenato la Francia e scatenato l’Europa”. Lo fece qui come altrove con tutte le contraddizioni e le ambiguità che da due secoli si trascinano e fanno discutere sulla legittimità di quella eredità, ma che qui più che altrove non impediscono di ricordarlo come la figura storica senza la cui azione l’Italia avrebbe esitato ancora sulla soglia di quella modernità annunciata già dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione.

Nessuna sorpresa, quindi, che il bicentenario della sua morte trovi un’attenzione, una partecipazione particolare in quello che rimane pur sempre il paese del manzoniano Cinque Maggio, dell’Ei fu…inizio di un verso celebre al quale tutti noi cerchiamo puntualmente di aggiungere altri versi – “Dall’Alpi alle Piramidi” “Fu vera gloria?” “Due secoli l’un contro l’altro armati” – accatastati in disordine nella nostra memoria di lontani studenti. Non solo Dante, verrebbe, così, da dire, ma anche Napoleone, nell’agenda di un 2021 che nelle vesti dell’Imperatore, il suo celebre cappello a due punte e la mano posata sul petto e nascosta sotto la redingote si annuncia esso pure ricco di appuntamenti.

Questo discorso potrebbe agevolmente trasferirsi all’Europa che, seppure più riluttante, in alcune delle sue parti, ad accogliere oggi l’eredità napoleonica, ne fu da essa non meno investita, e con risultati non inferiori, di quanto avvenne in Italia. Non è difficile, cioè, scorgere oggi, tra le pieghe di una storia, ovviamente assai più lunga e controversa del nostro continente, una “Europa napoleonica” tenuta insieme da un lessico della modernità appreso negli anni in cui Napoleone, per dirla con Victor Hugo, mentre “incatenava” la Francia “scatenava” le rigide società dell’Antico Regime europeo. Componevano quel lessico le nuove codificazioni che diffondono una civiltà giuridica sostanzialmente derivata dalla tradizione romana e che non toccano solo la sfera del diritto “civile”, ma anche quello, in rapida successione, delle procedure, delle norme commerciali, così importanti in un mondo in profonda trasformazione economica, e infine del diritto penale.  È una modernizzazione che, indubbiamente, poggia le sue fondamenta sul riformismo settecentesco ma, come in molti altri casi, anche in questo l’eredità dei Lumi è sostanzialmente rivissuta alla luce della esperienza rivoluzionaria e ne acquista uno spessore, una estensione, di cui prima non si era traccia. La scuola, o per dir meglio il processo formativo, sono anch’essi un elemento-cardine della modernità di questa “Europa napoleonica”, luogo di definizione del suo sistema valoriale, di esercizio e valorizzazione dei meriti, premessa di una eguaglianza che deve in prima battuta nascere dalla eguaglianza dell’accesso alla conoscenza. È, in definitiva l’idea di Stato, nel quale abilmente mescola la tradizione dell’esperienza monarchica francese e quella della Grande Rivoluzione, che costruisce l’Europa nella quale siamo abituati a circolare e costruisce, in qualche modo, gli europei, i quali ritrovano nelle certezze dell’amministrazione, della istruzione del diritto, il salutare equilibrio alle loro seducenti, ma anche insidiose diversità. Lo Stato, dunque, come spazio pubblico che organizza e sostiene le energie dei singoli e dei singoli associati, esercitando in ciò una funzione egualitaria la cui efficacia si rivela spesso non minore delle ricette della democrazia e del socialismo. Uno spazio pubblico che riconosce differenze e gerarchie, talvolta, ma sempre ex-post, mai come premessa del privilegio.

È forse anche per questa ragione che la memoria dell’Europa napoleonica affidata ai luoghi, ai monumenti, agli edifici può presentarsi, al tempo stesso, differenziata e uniforme. Differenziata nella misura in cui, parlando ciascun territorio della propria storia ancor prima che della storia di Napoleone vi si ritrovano rappresentate le rivendicazioni storiche di popoli che hanno visto contemporaneamente in Napoleone e nelle sue conquista il liberatore e l’oppressore. Ma convergente, e in questo senso europea, in quanto è proprio il ritrovarsi collettivo intorno alla duplicità di un giudizio dovuto alla forza ineluttabile del processo storico, gli europei riconoscono la matrice comune di una grande faglia della loro vicenda umana, sociale e politica e vi ritrovano ragioni seppur controverse di cammino condiviso.

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