Giorno della memoria

Negli ultimi decenni del Novecento, il mondo occidentale ha dedicato alla Shoah un’attenzione crescente. Le molteplici ragioni di questo fenomeno transnazionale sono state descritte e analizzate da una cospicua (e recente) storiografia e pubblicistica, che non ha mancato di indicare anche rischi e ambiguità di questo processo.

Possiamo tuttavia positivamente constatare come la consapevolezza del genocidio ebraico – le cause che lo hanno determinato, il suo svolgimento, gli apparati e i protagonisti che lo hanno governato, i contesti bellici di estrema violenza della II Guerra Mondiale – sia in larga misura penetrata nella cultura occidentale e costituisca oggi uno dei fattori che determinano la nostra attuale identità civile.

La Shoah è diventata un punto focale del discorso pubblico transnazionale, anche in forme istituzionalmente rilevanti, seppur non prive talvolta di distorsioni o strumentalizzazioni.

Questo tardivo interesse per la Shoah ha generato nel tempo, in contrasto con la sordina che aveva caratterizzato i primi decenni del dopoguerra, una messe eterogenea di pubblicazioni, studi, testimonianze, film, sceneggiati, serie TV, associati a un’imponente istituzionalizzazione della memoria, la cui principale acquisizione è stata l’introduzione del “Giorno della Memoria”, designato dalla risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e celebrato ovunque con eventi, interventi nelle scuole, corsi di formazione, unitamente a monumentalizzazioni di varia natura, tra cui le efficaci “pietre d’inciampo” dell’artista tedesco Gunter Demnig che, commemorando le vittime del nazifascismo, costellano ormai i lastricati di tutta Europa.

L’Italia non è rimasta estranea a questo processo: il Giorno della Memoria nel nostro paese è diventato legge nel 2000 e a partire da quella data manifestazioni, pubblicazioni, film, eventi si sono moltiplicati nelle scuole, nelle università, sui media.

Questo mese celebriamo dunque il 76° anniversario della liberazione di Auschwitz, il più grande e famigerato dei campi di sterminio nazisti. Sarà senza dubbio un momento di riflessione e di analisi oltreché un giorno in cui si potrà verificare lo “stato di salute” della  memoria della Shoah.

Guardando indietro agli oltre settanta anni trascorsi dalla fine della seconda guerra mondiale,  possiamo identificare diverse stagioni e differenti fasi nel modo con cui la comunità internazionale ha ricordato – o scelto di non ricordare – l’evento che commemoriamo il 27 gennaio di ogni anno.

Il decennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale il silenzio, il vuoto di memoria, calati sopra la Shoah sono stati determinati da due principali ragioni:  la prima riguarda la sfera delle necessità di natura personale e psicologica dei sopravvissuti ebrei di ritornare alla normalità, il che implica sempre una sorta di “fisiologica” rimozione mnemonica –“bisogna dimenticare per poter ricordare” diceva lo scrittore Jorge Semprùn; la seconda ragione ha investito la sfera più prettamente politica dell’Europa negli anni della ricostruzione, del boom economico e dell’accentuazione della polarità data dalla Guerra fredda e di una forte politicizzazione degli schieramenti.

Tuttavia in questo generale silenzio sulla deportazione per motivi razziali che caratterizza gli anni Cinquanta, la memoria della deportazione cosiddetta “politica” trovò una sua voce e una sua riconoscibilità all’interno dello spazio pubblico delle società civili dell’Europa occidentale. “Sul piano simbolico e collettivo – ha scritto la filosofa americana Jean Bethke Elshtain in un bel saggio dal titolo La virtù civica armata – uno dei fondamenti tradizionali della cittadinanza è la prerogativa del portare le armi, facendo degli inermi per necessità o per scelta figure minori, cittadini di seconda. È il modello consegnato alla modernità dalla Rivoluzione francese e dalle sue leve di massa, paradigma maschile e guerriero del rapporto individuo/stato”.  La scelta della lotta armata ha senz’altro conferito ai deportati politici, rispetto al deportato per ragioni razziali, ovvero all’ebreo, una sorta di egemonia nella immagine pubblica della deportazione in quel particolare contesto storico dell’immediato dopoguerra.

Tale stato di cose inizia gradualmente a cambiare all’inizio del decennio degli anni Sessanta dietro l’impulso di due eventi: l’ondata di antisemitismo che investì l’Europa con manifestazioni di allarmanti rigurgiti neo-nazisti; il processo a Gerusalemme del criminale nazista Adolf Eichmann nel 1961. Con il “processo del secolo”, come è stato chiamato, la Shoah ha conquistato uno spazio simbolico, identitario e politico del tutto inedito che le farà compiere  quel salto dalla memoria alla storia, trasformandola in una sorta di istituzione memoriale, se non in una vera e propria “civic religion”.

Per la prima volta un processo si poneva esplicitamente l’obiettivo di dare una lezione di storia; per la prima volta appariva il tema della pedagogia e della trasmissione intra-generazionale della memoria della Shoah. Centoundici testimoni deposero alla sbarra narrando le atrocità, gli abomini, le torture vissute e viste nei lager nazisti. Il testimone si fa portatore di storia e quella storia, grazie alla sua voce, diventa storia condivisa, una storia che può e deve essere raccontata nel presente così come in futuro.

È da quel momento storico che si stabilisce una pedagogia della Shoah e della sua memoria che arriva fino ai giorni nostri e che è monito attivo e militante, fra memoria delle atrocità del passato e insensibilità per la xenofobia contemporanea.

La Shoah, sosteneva Jürgen Habermas, è il trauma che ha lacerato il tessuto antropologico sul quale poggiava la storia europea. La scelta di fondare la religione civile delle democrazie occidentali sulla memoria di questo evento ha senso se essa viene connessa al mondo di oggi, se viene indirizzata contro le culture e le pratiche xenofobe che si espandono paurosamente nel presente.

La lezione della storia deve, per essere tale, sempre tradursi in un interrogativo attuale che si ponga domande sulla nostra disponibilità a sopportare nuovamente la discriminazione e l’esclusione del diverso, prima ridotto a ospite ingrato ed indesiderato e poi destinato all’eliminazione.

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