La prima pietra della Cupola

“Simbolo della migliore fiorentinità”: chi non lo ha pensato guardando la Cupola di Brunelleschi? Idea largamente condivisa, tanto dagli intellettuali più raffinati quanto dai turisti più distratti, essa è non meno priva di contenuto che suggestiva e ricca di implicazioni. Come si fa a concepire o semplicemente definire questa fantomatica fiorentinità? Eppure come si può parlare altrimenti che di fiorentinità non appena lo sguardo gettato su Firenze sia catturato, come inevitabilmente accade, dalla Cupola? Lo confermerebbero ricerche statistiche in base alle quali risulta che non esiste al mondo un segno urbanistico che richiami in modo altrettanto forte e pervasivo la città cui appartiene. Insomma, la Cupola sembra dire di Firenze più di quanto il Colosseo non dica di Roma o la Tour Eiffel di Parigi o il Cremlino di Mosca.

Certo è che dall’idea di fiorentinità non possiamo ricavare nulla o quasi nulla intorno alla Cupola. Troppo vaga, quest’idea, e soprattutto troppo fluida, o, come oggi usa dire, troppo liquida: vi si può trovare tutto e il contrario di tutto. Ma se questo è vero, è vero anche che non c’è come la Cupola a far luce sulla controversa idea di fiorentinità e a rendere quest’idea, da opaca qual era, perspicua. Dove per fiorentinità si intende ciò che Firenze e i fiorentini hanno di più peculiare, di più proprio. Di più universalmente apprezzato. Fiorentinità, dunque, nel suo senso migliore.

Diciamo allora che la costruzione della Cupola è stata anzitutto una prova: una prova di forza, di intelligenza e di capacità inventiva. Una sfida: la sfida di un uomo solo contro tutto e tutti. Ma un uomo solo che impugna la stessa bandiera di coloro che lo avversano. Costui osa ciò che nessuno aveva prima osato, anche se tutti ne erano stati tentati. Osa fare ciò che era nel cuore di tutti, ma non era ancora venuto in mente a nessuno. Riesce a soddisfare un bisogno apparentemente destinato a rimanere insoddisfatto. Boccaccio per primo aveva trovato la parola per designare questa virtù sublime: magnificenza. Non a caso la Cupola sarebbe apparsa agli occhi dei fiorentini esattamente quale era apparsa un giorno a Brunelleschi: “gonfia e magnifica”. Gonfia come se fra le sue volte soffiasse il vento stesso dello spirito e magnifica, semplicemente magnifica.

Ma Brunelleschi aveva riservato per sé un titolo molto più modesto: “inventore”. Questo titolo, che Brunelleschi volle fosse scolpito sulla sua tomba, si colloca al di qua della distinzione di artigiano e artista, che ancora non esisteva, essendo l’uno e l’altro sovrapposti nella figura dell'”artefice”, quale effettivamente Filippo voleva essere e pensava di essere; ma al tempo stesso si pone al di là di quella, poiché l’inventio comprende sia la padronanza di un mestiere (propria dell’artigiano) sia il talento per la novità (proprio dell’artista), e tuttavia supera entrambe le cose, in quanto apre in direzione del prodigioso e del non ancora mai tentato.

Brunelleschi giunge a sfidare i suoi concittadini proponendosi come il solo che è in grado di fare ciò che nessun altro sa come fare: sa come “voltar la volta” e cioè come colmare l’immenso vuoto sopra la crociera di Santa Maria del Fiore. E i suoi concittadini accettano la sfida – con la speranza neanche tanto nascosta di vedere scornata la sua presunzione, essendo intollerabile per un fiorentino che un fiorentino riesca dove tutti gli altri falliscono. Brunelleschi, invece, trionfa, a dispetto di tutto e di tutti. Il fatto è che l’inventore dispone di un sapere agonistico, conflittuale, ma vincente. Sapere che sa capovolgere il negativo nel positivo, addirittura l’impossibile nel possibile, tanto che la forza di gravità, grazie alla magia dell’arco (quell’arco che, come Brunelleschi scrisse in uno dei suoi rarissimi appunti di lavoro, “pigne sempre all’insù”), viene trasformata nel suo opposto.

Brunelleschi poté arrivare a tanto grazie all’invenzione, tra le altre cose, della prospettiva. Così come alla prospettiva giunse attraverso l’invenzione dell’infinito. Non però l’infinito come ipotesi puramente fittizia (l’infinito dei Greci, l’infinito dell’Alberti, il quale conseguentemente sviluppò una concezione relativistica e finitistica della prospettiva, che ci fa prigionieri del finito). Bensì l’infinito come realtà nella quale abita l’uomo. E con ciò resterebbe da chiedersi quanto tale concezione della prospettiva e dell’infinito abbia contribuito a edificare la Cupola e a rendere possibile quel che era sembrato impossibile. Allora diciamolo senza mezzi termini: se la Cupola ha ancora in serbo più di un segreto, come effettivamente ha, il segreto dei segreti è proprio questo.

Lascia un commento