Weimar, il Carnaro e il valore costituzionale del lavoro

Giustamente è stato ricordato di recente con grande partecipazione il movimento Bauhaus, nato a Weimar nell’aprile di cent’anni or sono. Vi si può vedere un’occasione anche per citare una celebre esortazione fatta da uno dei suoi fondatori, Walter Gropius, agli architetti, di “rivolgersi al mestiere”, giacché non v’è differenza essenziale tra l’artista e l’artigiano, sottolineando le virtù e l’importanza da riconoscersi al lavoro, da cui genera un accrescimento spirituale.

Lo storico del diritto è sollecitato a collegare tale invito (anche per la vicinanza geografica e cronologica) a uno dei primi riconoscimenti ‘forti’ del valore dell’attività lavorativa. Si tratta della Costituzione di Weimar, la cui origine va cercata negli eventi storici dell’epoca. La fine dell’Impero germanico, decretata dalla sconfitta nella Grande guerra, convinse la classe liberale che era tempo di cambiare rispetto all’ordinamento dato – in sostanza dai Prussiani – allo Stato, onnipotente e autoritario. Dopo aspre lotte combattute tra le varie forze politiche, tenutesi nel gennaio le elezioni che confermarono la maggioranza del partito socialdemocratico, capeggiato da Friedrich Ebert, nell’agosto del 1919 l’assemblea costituente riunita a Weimar promulgò una costituzione di grande spessore teorico, destinata ad essere additata come esempio in senso positivo dai partiti progressisti e in senso negativo dai tradizionalisti. Il Bundestag o Parlamento eletto dalla generalità dei cittadini era affiancato da un Bundesrat, o Camera regionale, e l’azione del governo, guidata dal cancelliere, risultava ben sorvegliata attraverso il voto di fiducia e i poteri di tipo eccezionale conferiti al Presidente della repubblica. La parte davvero innovativa della costituzione era la seconda, dedicata a definire i diritti fondamentali: non erano compresi in essi soltanto i diritti di libertà, d’associazione, d’espressione e di proprietà, com’era tradizione fino dalle carte costituzionali settecentesche, ma era dato largo spazio a valori legati alla socialità e al lavoro, e l’idea d’eguaglianza fra datori di lavoro e dipendenti era formulata in modo vincolante e del tutto inedito, come si vede leggendo l’art. 165:

 

gli operai e gl’impiegati devono collaborare con gl’imprenditori per la determinazione delle condizioni d’impiego e di lavoro e per lo sviluppo economico complessivo delle energie produttive. Le organizzazioni delle due categorie e i contratti da esse stipulati sono riconosciuti giuridicamente.

 

Erano istituiti “consigli economici di distretto”, e un “consiglio economico del Reich” incaricati di provvedere agl’indirizzi dell’economia nazionale, nonché dell’attuazione “delle leggi di socializzazione”. Ed è stato indagato e illustrato un ‘corporativismo weimariano’, con soluzioni interessanti e diverse da quelle che saranno le scelte del corporativismo fascista: le associazioni sindacali resteranno in genere non riconosciute dallo Stato, dei privilegi saranno accordati solo ai sindacati di maggiore capacità contributiva, il contratto collettivo, estensibile ai non iscritti, non potrà subire peggioramenti sul piano dei contratti individuali.

Tutto ciò comportava differenze enormi tra questo documento e gli analoghi precedenti, trasformando il semplice catalogo di situazioni soggettive, che lo Stato deve rispettare, in uno specchio fedele della complessa compagine sociale della Nazione.

Anche in un altro testo costituzionale pressoché contemporaneo, stavolta italiano, pur di ben diversi peso e notorietà, rispetto al weimariano, la cosiddetta “Carta del Carnaro”, sono rintracciabili gli stessi elementi. Esso si lega alla cosiddetta “questione fiumana”, ovvero alle rivendicazioni che portarono i volontari (militari e civili) capeggiati dal “poeta-soldato” Gabriele d’Annunzio ad occupare, nel settembre di quell’anno, la città di Fiume, una delle sei (le altre erano Trento, Trieste, Gorizia, Pola e Zara) “irredente”, rimasta al di fuori delle acquisizioni italiane seguenti i trattati di pace conclusivi della Grande guerra. La dissoluzione dell’Impero austriaco aveva portato all’Italia, con l’Alto Adige e il Trentino, Trieste e l’Istria; ma la vittoria era considerata “mutilata” da nazionalisti e fascisti, per i quali il patto di Londra dell’aprile ’15 – che aveva condotto a rompere la neutralità e a entrare in guerra contro gl’Imperi centrali – non era stato rispettato. D’altra parte, la creazione del Regno d’Jugoslavia (costituito da Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina e Montenegro) e l’obbedienza al principio dell’autodeterminazione dei popoli stabilito dal presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson avevano negato all’Italia la Dalmazia, popolata in prevalenza da Slavi. Fiume era di popolazione italiana: si trovava occupata da forze internazionali, quando con i suoi “legionari” il D’Annunzio riuscì ad impadronirsene, al termine d’una marcia vista con favore da molti capi militari. Fu dichiarata costituita la “Reggenza del Carnaro”, annessa all’Italia, e destinata a durare fino al dicembre del ’20, dopo la conferenza di Rapallo, con la quale Giovanni Giolitti tornato al governo riuscì a risolvere la situazione, molto rischiosa per il prestigio internazionale italiano: l’Italia rinunciava alla Dalmazia, annetteva l’Istria, Fiume era indipendente come “città libera”. Intanto, anche grazie a un fiancheggiatore del poeta, cioè il sindacalista Alceste de Ambris, era stata preparata la “Carta”, con intenti anarchici: all’art. IX della redazione-revisione dannunziana si leggeva

 

Lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può essere lecito che tale proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad esclusione di ogni altro. Unico titolo legittimo di dominio su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro. Solo il lavoro è padrone della sostanza resa massimamente fruttuosa e massimamente profittevole all’economia generale.

 

Era così inaugurato il percorso proseguito dall’art. 1 dell’attuale Costituzione repubblicana dell’Italia “fondata sul lavoro”, asserzione tuttora basilare nonostante le inadempienze e gli stravolgimenti molte volte da più parti denunciati.

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