Miti e realtà delle migrazioni

L’immigrato si sovrappone, sia nel senso comune sia nel labirinto delle classificazioni sociologiche, con la figura sociale dello straniero. Per dire meglio si tratta di un tipo particolare di straniero che associa due caratteri “negativi”: a) è un soggetto privo della nazionalità cioè è privo di una risorsa fondamentale per configurare un’identità rassicurante nell’ambito di una comunità; b) ed è soprattutto un povero (in un senso ampio); cioè si tratta di un soggetto che è privo di quelle risorse culturali ed economiche che consentono di essere un cittadino, non solo pleno iure ma ancor più in un senso concreto. Detto altrimenti è un soggetto che non possiede quel minimo di chance di vita ritenuto fondamentale per legittimarne l’appartenenza ad una comunità che non è quella originaria. Va sottolineato che la questione dell’identità dell’immigrato si collega alla categoria di confine intrecciata storicamente con il processo formazione dello Stato-nazione e al sentimento di appartenenza comune che caratterizza tale processo. L’immigrato è un straniero che mette in crisi l’identificazione identitaria di una comunità nazionale fortemente legata per l’appunto all’idea di confine ed alla sua funzione protettiva. Inoltre, essendo un povero proveniente da un altro mondo, l’immigrato alimenta un senso di insicurezza e di disagio che il più delle volte, e da sempre in tutte le latitudini, un “diverso” produce in chi si ritiene “normale” e soprattutto nelle generazioni più anziane che fanno della sicurezza quotidiana una dimensione fondamentale della loro vita. La conferma di questo stato di cose la ritroviamo nel fatto che la stessa etichetta di immigrato (o di extracomunitario) non viene attribuita nel linguaggio comune – proprio perché non sono poveri – agli stranieri come gli americani, i giapponesi o i cittadini di altre nazioni che vengono a vivere, ospitati felicemente, nel nostro paese o in Europa.

Le fonti statistiche sull’immigrazione in questi anni si sono moltiplicate ed affinate sotto il profilo metodologico. Oltre ai siti dell’Eurostat, dell’Istat, della Fondazione Ismu, della Caritas-Migrantes, nonché quelli dell’ILO, della World Bank e dell’ONU sono da esplorare i numerosi studi dei centri di ricerca universitari coordinati da docenti di sociologia delle migrazioni e da demografi. Ma la consultazione dei dati da parte degli addetti ai lavori cioè di chi alimenta il dibattito pubblico sul tema o da chi ha il compito istituzionale di governare questo processo è tuttora assai limitata. Nella migliore delle ipotesi la lettura è selettiva in relazione agli interessi politici e dunque manipolante per motivi più di propaganda che di analisi oggettiva. Sembra di poter dire che c’è un’immigrazione “buona” ed una immigrazione “cattiva”. La prima è quella che ogni giorno -da molti anni- la si ritrova al lavoro tra le nostre mura domestiche, nelle fabbriche, nelle aziende agricole o mentre svolge dei servizi umili ma fondamentali nelle città. L’altra è quella, più recente e più visibile, fatta prevalentemente da giovani che ciondolano per le strade e attorno alle stazioni ferroviarie. Giovani spesso usati dalla criminalità organizzata per lo spaccio e per altre attività illecite ma che molto contribuiscono alla diffusione della microcriminalità ed al rafforzamento di quel senso di insicurezza che stigmatizza in modo negativo l’immigrazione. Nell’intera opinione pubblica europea è cresciuta la preoccupazione per gli effetti della complessa fenomenologia determinata dal processo di migrazione. In media nei paesi dell’Unione europea la convinzione che «l’immigrazione è un grandissimo problema» era, nel 2012, espressa dall’8% (il 3% in Italia). Nel 2017 questo tasso è salito in modo esponenziale: al 22% in Europa e al 36%in Italia. Ancora i sondaggi in Europa ci dicono che nell’uomo della strada la presenza degli immigrati viene sovrastimata. Soprattutto dagli italiani che ritengono che la consistenza degli immigrati riguardi il 26% della popolazione e che dunque arrivino ai 15 milioni mentre in realtà si aggirano sul 9 % della popolazione totale. In altri termini per disegnare un’analisi pacata è opportuno fare ricorso a delle cifre, anche se le cifre nella loro freddezza trascurano i vissuti soggettivi da cui, poi, scaturiscono le azioni che definiscono la realtà effettiva anche nei suoi aspetti più drammatici. Il popolo degli immigrati in Italia ha attualmente una consistenza di poco meno di sei milioni di persone. Di questi poco più di 500mila sono irregolari, cioè privi di un regolare permesso di soggiorno e rappresentano la immigrazione “cattiva”. Nella cifra globale vanno inclusi 2,3 milioni di occupati regolari e circa 1 milione di minori. Dopo anni di crescita, nonostante quel che si crede e che si sostiene nel dibattito alimentato dai mass-media, la popolazione straniera è pressoché stazionaria. Le provenienze più importanti si distribuiscono in questo modo: 1milione e 200 mila sono rumeni (il 23% del totale); gli albanesi sono il 9,3 %, i marocchini sono l’8,7%, i cinesi il 5,4%, gli ucraini il 4,6%, i filippini il 3,3%, i moldavi il 2,8%. I dati ci dicono che l’immigrazione è stata e continua ad essere soprattutto europea, femminile e da Paesi di religione cristiana. I musulmani sono meno di un terzo degli immigrati, circa 1 milione e mezzo. La crisi del 2007 ha influenzato pesantemente la questione. Si sono rallentati i ricongiungimenti familiari, sono diminuite sensibilmente le nascite da genitori stranieri. In altri termini l’assimilazione degli stili di vita italiani si è rapidamente incrementata smentendo così le ipotesi dei demografi conservatori secondo cui gli immigrati ci avrebbero salvato dal declino demografico ma avrebbero avviato una pericolosa dinamica di sostituzione della “razza bianca”. Viene ormai dimenticato che negli ultimi venticinque anni, quando il mercato del lavoro reclamava senza troppi problemi manodopera straniera, abbiamo avuto sette sanatorie. Le prime quattro promulgate tra il 1986 ed il 1998 hanno messo in regola quasi 800mila immigrati. Nel 2002: 630mila; nel 2009: 300mila; nel 2012: 120mila. L’aggravamento della crisi economica del 2007 ha inibito la domanda di nuovi arrivi, a parte il caso di alcuni lavoratori stagionali che spesso provengono dai Paesi europei e dunque non reclamano autorizzazioni. Si ipotizza che l’uscita progressiva dalla crisi, accompagnandosi ad un auspicabile incremento dell’occupazione delle donne, specialmente di classe media, comporterà una nuova domanda di lavoro a bassa qualificazione in ambito domestico. Sembra anche corretto ipotizzare una correlazione positiva tra l’occupazione degli immigrati con l’occupazione degli italiani. Ipotesi che viene confermata dalla concentrazione della forza lavoro immigrata nei nostri territori dove c’ è maggior benessere, reddito e lavoro per gli italiani. Con il passare degli anni molti immigrati vengono “naturalizzati” e diventano italiani a tutti gli effetti (nel 2015:178mila; nel 2016: poco più di 200mila). Di conseguenza nella terminologia corrente dovremo sempre più distinguere tra immigrati e persone di origine immigrata.

Naturalmente il segmento di popolazione immigrata cui si guarda con maggiore attenzione e preoccupazione è costituito dalla “massa” di disperati che sbarca nei nostri porti dopo esser stata salvata dalla morte per naufragio e dalle grinfie rapaci dei criminali che sulle sponde del Nord Africa organizzano i drammatici viaggi della speranza. Questo segmento di migranti a seguito di una politica di contenimento da parte del governo italiano, come è noto, si è recentemente ridotto. Nel 2017 sono sbarcati 119 mila migranti a fronte dei 180mila del 2016. Un’aura di grande incertezza domina la scena. Gli accordi con la Libia e con il Niger reggeranno? Si apriranno delle rotte alternative come quella dalla Tunisia e quella verso la Spagna? Un aspetto molto importante su cui riflettere riguarda le strategie europee relative a quella che è stata definita l’“accoglienza respingente” che nel caso italiano diventa una finta accoglienza e fa emergere l’inadeguatezza della nostra organizzazione pubblica malamente mascherata da una burocrazia pervasiva e inconcludente. La nostra tempistica di accoglienza misurabile sulle domande di asilo politico è raccapricciante. Al proposito un documento corposo che meriterebbe un commento approfondito è il rapporto conclusivo recentemente redatto a fine legislatura dalla «Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglimento, di identificazione ed espulsione, nonché sulle condizioni e di trattenimento dei migranti e sulle risorse pubbliche impegnate». Basti qui ricordare che la proliferazione dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) che erano 3.050 nel 2015 e diventano 8.920 al dicembre 2017, svela l’intrusione della criminalità organizzata oppure nei casi migliori di gestori improvvisati i cui guadagni illeciti sulla pelle dei migranti e dei contribuenti italiani vanno assolutamente puniti.

Quali scenari per il futuro? I flussi di immigrati seguono nel mondo itinerari differenti ed hanno differenti consistenze che variano nel tempo in relazione ai macroprocessi di mutamento rapido e radicale contemporanei, determinati dalla globalizzazione, dalle guerre, dalle trasformazioni dell’ambiente e dall’andamento dello sviluppo economico e delle sue crisi. A noi europei, e soprattutto a noi italiani, interessa il flusso che si dirige dal Sud del mondo verso i nostri Paesi. I modelli previsivi ci dicono che nel prossimo decennio il flusso migratorio africano verso i Paesi dell’EU-28 si può stimare sulle 350mila persone all’anno con un aumento fino a 380mila tra il 2026 ed il 2030. Il flusso dovrebbe oscillare attorno alle 6 unità in ingresso ogni 10mila abitanti. Ma le differenze da Paese a paese saranno assai sensibili. L’Italia si dovrebbe attestare sugli 8 migranti ogni 10mila abitanti. Dunque le nuove politiche di governo delle migrazioni dovranno essere basate necessariamente su una collaborazione tra Europa ed Africa e dovranno essere messe in cantiere con urgenza, con competenza ed in modo responsabilmente sinergico. Naturalmente i dati statistici e le previsioni demografiche non possono tenere conto di fenomeni imponderabili determinati da “attività irrazionali” come la politica e le guerre. La guerra in Siria ed in Iraq ha causato 5milioni di profughi. Di questi solo una minoranza -peraltro molto qualificata- è arrivata in Europa ed è stata abilmente assorbita dalla Germania e dal suo mercato del lavoro. Le previsioni comunque non sono confortanti. La politica e la democrazia contemporanee si nutrono di incompetenze e di paradossi propinati agli elettori, sempre più riluttanti, da classi politiche senza qualità. I governi europei inclinano ad una perniciosa autoreferenzialità mentre le politiche fondamentali dovrebbero rispondere ad una logica di interdipendenza reciproca se si vuole che siano efficaci. Viene a galla, in modo davvero preoccupante, la distinzione tra l’Europa di Ventotene e l’Europa di Visegrad che speriamo non travolga anche la politica italiana.

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