“Piccole patrie”

Al momento nessuno può nemmeno immaginare come può andare a finire la questione catalana. Essa rappresenta la sublimazione di un qualcosa che la sovrasta e che, se ragioniamo in termini orizzontali, riguarda, in buona sostanza, un sentimento di ritorno alle cosiddette “piccole patrie”; a sentirsi appartenenti a un’area più piccola che non a una più grande vissuta come altro rispetto a come si vorrebbe essere. Che la Catalogna non si senta spagnola non è cosa dell’oggi. Stupisce, tuttavia, che si possa ritenere, pur cercando di far valere tutte le ragioni possibili – storiche, economiche, culturali – che da uno Stato si possa uscire unilateralmente. Ciò non è previsto nemmeno negli Stati a ordinamento federale. Tra l’altro, in Spagna, vige un sistema costituzionale che contempla quello che viene definito il “federalismo a separazione”; vale a dire che ogni regione può trattare il grado di autogoverno con il potere centrale definendo ruoli, competenze e risorse. Ciò permette livelli molto avanzati di autonomia, un sistema molto vantaggioso per una regione ricca come la Catalogna: la più ricca delle regioni europee. Il presente, tra l’altro, ci dimostra, che è difficile uscire anche da comunità che Stati non sono: se tutto andrà bene l’Inghilterra, per lasciare l’Europa, dovrà aspettare ben quattro anni. Dobbiamo, inoltre, riconoscere che mettersi in un vicolo cieco non è mai segno di accorta politica e supponiamo che, se il governo di Madrid avesse trattato sugli esiti del precedente referendum catalano – che non era indipendentista, ma rivendicazionista – molto probabilmente non saremmo arrivati a questo punto. Sicuramente la questione non si risolve con la Guardia Civil. Non resta che attenderne gli sviluppi. L’unico Stato che ha proclamato la propria indipendenza senza tanti problemi, se non andiamo errati, è stata la Slovenia, ma oramai si stava dissolvendo la Federazione jugoslava e i vecchi sanguinari etnicismi slavi stavano riprendendo campo. Infatti, lo ripresero con gli esiti tragici che tutti abbiamo ben presenti.

Il caso della Catalogna, quello della Scozia, il chiudersi di tanti Stati in un difensivo nazionalismo assoluto, la stessa Brexit, se vogliamo, ci dicono qualcosa; ci interrogano sul perché, in un mondo oramai senza frontiere, torni con toni aspri la questione delle identità. Con tali toni, naturalmente, poiché il problema delle identità  non è sopprimibile essendo, uno dei fondamenti forti dei fattori culturali comuni e del comune incivilimento. A nostro avviso è, in buona sostanza, una risposta indotta da un globalismo senza veri valori morali il quale, cancellando l’idea di Stato-nazione cancella anche quella del destino comune che un popolo deve sentire per dichiararsi nazione. Non solo, ma un globalismo sfrenato, senza regole, non governato da nessun pubblico potere, crea grandi solchi sociali, paura degli uni verso gli altri, timore che ciò che oggi è nostro domani lo sia di altri e così via. Così, di fronte ad una paura che la debolezza spaventosa della politica non fa niente per arginare, ma anzi cavalca molto spesso con incoscienza demagogica, è evidente che le forme di autodifesa si radicalizzino. Impropriamente il fenomeno è definito come “populismo”, ma non si tratta di questo poiché il populismo è sempre parte della politica, magari di una politica deteriorata. Il nome vero è “demagogia” che, come sappiamo, costituisce la soglia di entrata nell’antidemocrazia.

Tutti, in questa incerta stagione della Storia, ci rivolgiamo all’Europa, ma essa non sembra concentrarsi che sul problema dei bilanci, mentre dovrebbe affrontare anche altro. Vale a dire, a costruire una filiera identitaria che non nega le radici di un popolo e la sua nazionalità, ma li considera dati costitutivi di una comune identità europea. Perché ciò avvenga occorre che “l’idea dell’Europa” divenga il focus di una alta, consapevole, azione politica di cui, al momento, non si vede nemmeno l’ombra.

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