Viaggio di Dante al centro della Terra

Cinque secoli e mezzo dopo Dante (1265-1321), Jules Verne (1828-1905) ha fatto nel 1864 il suo Voyage au centre de la Terre. Si è imbattuto nelle cose più incredibili, egli che pur aveva fatto tanti Viaggi straordinari attraverso i mondi conosciuti e sconosciuti da riempirne 60 volumi, e Il giro del mondo in ottanta giorni.  Verne era un uomo dalla fervida fantasia, conoscitore dell’animo umano, in sintonia con il suo tempo che al progresso tecnico scientifico ci credeva. Si avvaleva della  sua inventiva per trarne trame avventurose sul tipo della science-fiction del nostro tempo. Finì i suoi giorni in volontario isolamento, forse disilluso dagli uomini o dalla scienza, o forse perché dopo tanto cercare non aveva trovato niente di importante. Chissà poi cosa cercava al centro della terra, meno che mai l’oro nero petrolifero facilmente reperibile a profondità minori. Per la scienza, a esser precisi, il centro della terra è un nucleo incandescente, impossibile da raggiungere, off-limits per tutti, per vari comprensibili motivi. E’ più difficile raggiungere il centro della Terra che arrivare su Marte o sulla Luna.
L’8 e il 9 aprile del 1300 Dante, lui sì, con il corpo o con lo spirito è controverso, fece un viaggio al centro della Terra, descritto poi in un Poema che ha fatto il giro del mondo durante i secoli, che continua a interessare lettori e studiosi di ogni dove. Se Verne incuriosisce per le sue trovate e intuizioni fantascientifiche, -è andato sulla Luna il 1865, molto prima degli americani nel 1969, senza trovarvi che sassi e poca forza di gravità-, Dante con la prima cantica della Divina Commedia coinvolge e mostra un mondo, mostra l’Inferno specchio del mondo, proiezione di quello terrestre ma imperituro eterno. Ne ha fatto un racconto che cattura, come del resto è per il Purgatorio e il Paradiso, le altre due cantiche del Poema, per completare la dimensione della sorte umana, e il compito di dare alla vita un senso compiuto. Uscito infatti alla luce del sole dopo le tenebre infernali, si trova su un’isola nell’Oceano australe, agli antipodi di Gerusalemme, centro del mondo, con una montagna da scalare per portare a compimento il viaggio e accedere alle Alte Sfere celesti che lo attendono, nell’esperienza dell’anima e dell’intelletto.
Una discesa dunque e poi un’ascesa, e poi un’ascesi fino alla visione mistica di Dio. Un viaggio oltremondano assai complesso, che rinvia alla domanda sempre pertinente e attuale: Cosa ci sarà dopo la morte? visto che la morte è inevitabile per tutti. Finisce tutto con la morte oppure no? E se per gli  inglesi: La prova del budino è mangiarlo, in questo caso non c’è che da aspettare Sorella Morte giunto il momento. Dante, nella sua visione del mondo di credente ci racconta questa sua esperienza di Fede e di Ragione in anteprima.
Certifica d’esserci andato per davvero nelle viscere terrestri dove ha visto di tutto, anime in pena, demoni, mostri mitologici, paludi, fiumi, Dite, la città infernale e pioggia di fuoco e fiamme e gelo, e udito lamenti e grida di peccatori di ogni risma scontanti ogni genere di peccato; da ultimo ha visto persin Lucifero, l’angelo ribelle dal quale ha avuto inizio il Male. Deve pur avere un perché il Male, e un perché la Morte, così come la Vita. Lo sappiamo tutti com’è andata: L’Uomo, maschio e femmina, non era destinato alla morte e alle pene che lo affliggono sulla Terra, non al sudore della fronte e alle difficoltà le più varie, alle incertezze e alle inquietudini, alle tirannie e alle schiavitù, alle ingiustizie, alle frodi, agli inganni, ai tradimenti, tutte cose di cui la Storia è costellata. Erano destinati alla felicità e alla vita i nostri progenitori, nel Paradiso terrestre ubicato proprio sulla cima della montagna del Purgatorio, ai confini con il cielo, per la loro innocenza non ancora persa per la disobbedienza e per la superbia, in contatto costante con Dio; dopo la caduta nel peccato la felicità terrena e la vita eterna non sono scontate.
E un po’ gli tremavano i polsi a Dante al pensiero di andarci e di doverne scrivere, oltre al fatto di non sentirsi degno di compiere un viaggio fuori dall’ordinario e prima del tempo: “o mente che scrivesti ciò ch’io vidi/qui si parrà la tua nobilitade”. Dante non è uno che crede alle favole, ma racconta ciò che ha visto fedelmente.

    Ma perché fa questo viaggio? Non per spirito d’avventura e per curiosità come per Verne. Non per un divertissement letterario, o per farne un film ad effetti speciali, o per sfuggire alla monotonia dei giorni insipidi. Il viaggio ha un obiettivo preciso: prendere coscienza del Male che per le strade del mondo si aggira e là sotto è condannato nei suoi esiti tragici eterni oltremondani per chi ha avuto la disavventura di praticarlo; per dire che la Giustizia c’è ed il Male non ha l’ultima parola. Quante volte gli uomini si lamentano dicendo: Non c’è giustizia in questo mondo, e forse è vero per certi aspetti, per i quali essa è un particolare trascurabile, specialmente oggi ai tempi del pensiero debole, quando è sempre più difficile distinguere tra cose giuste e cose sbagliate, tra il Bene e il Male. Ma la Giustizia ultraterrena c’è, almeno quella c’è, in una aspirazione, in un ideale, in un atto di Fede; come peraltro c’è la Misericordia divina, senza la quale saremmo perduti.

   Diciamo allora che il viaggio l’ha fatto per necessità e anche per virtù. E ha fatto di necessità virtù. Non si sa come abbia avuto inizio, Dante stesso non lo sa. Sa solo che a un certo punto della sua vita, a 35 anni, l’A.D.1300, l’anno del primo Giubileo, indetto da Bonifacio VIII, l’8 aprile, Venerdì santo, di punto in bianco si è trovato in una selva oscura, impaurito. Non sapeva come vi era entrato, né sapeva come uscirne; l’unica via d’uscita era un colle dilettoso illuminato dal sole, come si vedeva non lontano; si accinge ad andarci, ma tre fiere minacciose, lonza leone lupa, con le ragioni della forza, glielo impediscono; esse sono  l’espressione delle inclinazioni umane al male, sono le passioni, invidia superbia ingordigia, che soggiogano l’intelletto e impediscono il retto uso della Ragione. Si presume che l’Uomo non possa volere il Male ragionevolmente. Dante trema tutto: Mi sono smarrito, mi sono perso, sono perduto, aiuto, aiuto! E di lì a poco, sarà Virgilio, provvidenzialmente, con la forza della Ragione a trarlo d’impaccio; la Ragione si fa sua guida, e per altra strada, dopo aver attraversato i domini del male nelle viscere della terra facendone concettualmente esperienza, raggiunge il dilettoso colle intravisto, sfuggendo al pericolo in cui si trovava. E’ il Male che provoca angoscia, e da esso trovare una via d’uscita, dai rigori infernali per andare incontro al tepore solare della pace interiore. Ci si chiede come mai la Divina Commedia continua a far parlare di sé e parli ancora agli uomini di ogni latitudine e longitudine, qualunque sia la visione del mondo che essi possano avere. Parla poiché interrogarsi sulla condizione umana, sul senso della vita, sul bene e il male, sulla giustizia e sulla libertà dell’agire umano, è intrinseco al fatto d’essere al mondo, riassunto nella domanda tanto elementare quanto difficile: Chi siamo? Da dove veniamo, dove andiamo? E dove cercare per trovare una risposta? Dentro di noi o fuori di noi? Nella Fede o nella Ragione? Nello smarrimento di Dante non è difficile vedere lo smarrimento dell’uomo d’oggi,  vittima dell’angoscia e dell’inquietudine, con o senza sensi di colpa, in stati d’animo talvolta conflittuali con il mondo e la coscienza, e devastanti. L’urlo di Munch (1893) esprime figurativamente l’esasperazione dell’umana esistenza in preda all’angoscia che è di tutti e può essere di ognuno, in crisi di identità e di valori, in crisi esistenziale e spirituale; e l’uomo si sente perso, invoca aiuto, aiuto dall’altro, aiuto dall’Alto. Entrato in crisi Dante, smarrito, egli pur sicuro di sé in tutti i sensi, il colle illuminato era una prospettiva di salvezza. Dati gli impedimenti, non sa che fare. Vede allora una figura, ombra o uomo che fosse, e implora aiuto. Per fortuna, è Virgilio, (79-19 a.C),  nientemeno, il grande poeta latino dell’impegno morale, ora nel Limbo tra i magnanimi, che per Dante era maestro e autore preferito; fortuna doppia. Virgilio gli spiega perché sono là entrambi; l’uno perché aveva smarrito la via dritta, l’altro perché mandato in suo soccorso da Beatrice stessa, sollecitata da Santa Lucia, sollecitata dalla Vergine Maria. E Dante, se vuol guadagnare il colle dilettoso deve fare un percorso lungo di consapevolezza, affrontando con umiltà l’Oceano del male nelle viscere della Terra. E poi, virando, risalire dagli abissi, doppiare il capo di Buona Speranza della Fede per approdare all’isola che c’è del Purgatorio, dominata dal colle, da scalare fino alla vetta, dell’Eden perduto, per il gran salto di qualità del Paradiso, degno della Visione. E’ un viaggio salvifico. Ce la può fare. E’ un viaggio di Grazia, paradigma spirituale per ognuno che si ponga il problema dell’Aldilà in ottica di Fede. Virgilio/Ragione lo rassicura: lo accompagnerà egli stesso fino alla vetta dell’Eden, poi ci penserà Beatrice/Fede a completare l’opera.

 E inizia il viaggio. Vi trova non le cose che vi ha trovato Verne, di fantasia spettacolare fine a stessa. Vi trova il Male nella sua ipostasi definitiva, conforme alle scelte di vita errate di ognuno. Dopo la colpa primigenia nessun essere umano è esente dalle possibilità del Male, che i credenti chiamano anche peccato, mentre i non credenti chiamano Male e basta, e se lo compiono non devono rendere conto a nessuno oltre gli orizzonti terreni, buon per loro; sulla terra la si può sempre farla franca o trovare qualche scappatoia. Sulla terra tutto è relativo, anche lo Spazio e il Tempo nella visione avanzata einsteiniana; il mondo in effetti è sempre stato a corto di certezze; paradossalmente più si sa e meno si comprende. La conoscenza è un Oceano in cui l’uomo può anche perdersi, come l’Ulisse dantesco fiducioso in se stesso fino alla temerarietà. L’Ulisse di Joyce è un poveruomo contemporaneo smarrito per le strade del mondo, e l’Ulisse di Omero, archetipico, è un avventuriero diviso tra spregiudicatezza di guerra e senso del dovere, pragmatico e malinconico. Vi trova il Male, in un percorso a ostacoli tra gironi, cerchi e bolge, tra caterve di peccatori che stanno male, in un repertorio di cattiva condotta e di mala vita le cui cronache terrestri danno solo una pallida idea. I peccatori son divisi per tipologia di peccato: incontinenza, malizia e matta bestialità, in ordine crescente di gravità, nell’ottica del pensiero forte dell’aristotelismo e della scolastica. Il viaggio Dante lo ha fatto, e non nasconde nemmeno i suoi peccati, dal fondo della sua coscienza. Ogni essere umano è dotato di coscienza, consapevole di quello che fa, responsabile, libero, razionale, sentimentale. Nel fondo dell’Uomo c’è il desiderio del Bene anche se poi inclina al Male. Aristotele aveva affermato l’esistenza dell’anima, mortale tuttavia, a differenza di Platone, che la riteneva a modo suo immortale. Una querelle che dura da secoli. Dante cristianamente sostiene l’immortalità dell’anima. Nel pensiero postmoderno ancor più a corto di certezze molti sostengono il contrario e perciò se ne disinteressano. Ma l’anima ha un significato che trascende l’orizzonte temporale per proiettarsi nell’eternità. Platone e Aristotele, in disaccordo, attestano la parzialità della Ragione nell’impossibilità di prove sperimentali scientifiche, e la necessità di cercare altrove il significato della vita, tanto più dopo la morte, salto nel buio oppure nella luce.

   L’Inferno c’è. E’ il luogo della Giustizia Divina. “Fecemi la divina potestà, la somma sapienza, il primo amore”. E vi finiscono le anime prave, a frotte. Dante è lì di passaggio, per dovere d’ufficio, in un viaggio di studio potremmo dire. Due giorni, per capire del Male, cause ed effetti, fuori dal fascino che indubbiamente sulla Terra esercita considerato il gran numero di fans che gli van dietro, mentre qui mostra il suo vero volto, brutto e deforme. L’Inferno è la quintessenza del Male vista nella prospettiva dell’Eternità, quando allo scader del Tempo la Commedia umana finisce. E’ dunque un viaggio dell’anima il suo, con le caratteristiche di una visione spirituale, di una finzione poetica, di un’immaginazione fondata razionalmente su basi teologiche e filosofiche. E’ un’esperienza che lo trasforma profondamente. 14233 versi, a rime incatenate, in cento canti. Dante però si sentiva più che poeta, profeta, investito dall’Alto della missione di ammonire, istruire, aprire gli occhi agli uomini nell’ottica cristiana che vuole la salvezza di tutti, non la loro perdizione. Ecco perché il viaggio di Dante al centro della terra, e in seguito proseguito fino all’Empireo, è poeticamente, concettualmente, spiritualmente sempre attuale, poiché dà da riflettere a tutti, comunque ognuno la pensi sull’argomento, sull’Aldilà.

Lascia un commento