Indro Montanelli. A vent’anni dalla scomparsa

Indro era solito dire che in Italia quando uno è morto è proprio morto. Pagina chiusa. Dimenticato. Si passa oltre. Forse lo diceva per esorcizzare il proprio destino. A vent’anni dalla scomparsa possiamo dire (e dirgli) che aveva torto, almeno per quanto riguarda la sua sorte. Montanelli è sempre vivo, lo ritroviamo nei molti allievi che lo ricordano, che si dichiarano tali – anche quando hanno obiettivamente dirazzato –, che ne coltivano la memoria.

Mi sono chiesto perché Montanelli ha avuto torto e la sua profezia non si è avverata. Ho trovato la risposta in una considerazione che Indro (che, per chi non lo sapesse, è la mascolinizzazione di Indra, divinità induista) soleva ripetere negli ultimi anni della sua lunga vita: la morte lenta, e neppure tanto, del giornalismo a partire dall’ultimo quarto dello scorso secolo; l’esaurirsi del mestiere che era stato ragione della sua esistenza. Finis vitae. Quindi, quando è morto il suo tempo si era già esaurito e lui è rimasto icona di una pagina conclusa della storia.

Forse non aveva tutte le ragioni, a proposito della morte del giornalismo, ma in parte sì. Certo quel giornalismo coraggioso e avventuroso da inviato speciale col quale si era messo in luce narrando per il “Corriere della Sera” della disperata ed eroica resistenza finlandese contro le armate sovietiche e della tenace lotta dei norvegesi contro l’assalto della Germania non trova più riscontri nei reportage dei contemporanei. Non perché non ci siano giornalisti bravi e coraggiosi, che talora sacrificano la vita al mestiere. Ma perché è un’altra cosa. Oggi tutto è ravvicinato, tutto si trasmette in tempo reale. Viviamo nell’età della permanente contemporaneità e dell’immagine. Quella capacità evocativa di luoghi e situazioni tutta affidata alla penna del giornalista testimone diretto non può più svilupparsi in tutte le sue potenzialità. Allora la parola scritta era tutto.

Indro aveva avuto illustri predecessori e maestri al “Corriere”, come Luigi Barzini, e nel dopoguerra consolidò la sua fama di principe degli inviati speciali che dalla portaerei del Corrierone instillava ai suoi affezionati lettori pillole di un giornalismo diretto, efficace, convincente, inimitabile. Ricordate il ’56 ungherese e il dramma I sogni muoiono all’alba? Tutti hanno cercato di imitare la lingua di Montanelli e la sua capacità espressiva che univano doti di forza persuasiva e incisività senza fronzoli, molto Tacito e niente Cicerone, ma senza riuscirci. Molti hanno cercato il segreto della semplicità della sua lingua, per dirla con John Ford, senza scoprirlo. E quando giornalismo e culto della lingua andavano ancora di pari passo, Indro era insuperabile.

Certo è stato personaggio controverso. Fascista poi antifascista, rocambolescamente salvato dal plotone di esecuzione di Regina Coeli, quindi anticomunista viscerale. Fino a essere sospettato di congiura golpista con l’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce. Rapporti a dir poco complessi con le donne, con l’accusa postuma di aver comprato una sposa bambina in Eritrea e poi gli amori di un uomo vocato alle grandi passioni, ma con una che sovrasta tutte le altre, il giornalismo. Perché da Montanelli si poteva dissentire. Di più, lo si poteva detestare, come fu odiato fino al punto d’essere gambizzato dalle Brigate rosse. Ma un punto non era controverso: la sua onestà di fondo, la sua indipendenza; il suo culto della libertà d’informazione sull’ara di un giornalismo che non voleva contaminazioni col potente di turno. Pena, ai suoi occhi, tradire l’etica del giornalista.

In realtà, quel giornalismo che tanto amava aveva iniziato a morire quando, con quello che Indro definì un golpe guatemalteco, nel 1972 l’editore Giulia Crespi cacciò Giovanni Spadolini dalla direzione del “Corriere”. Era la fine del giornalismo di modello albertiniano. L’editore entrava a gamba tesa nella direzione del giornale per imporre le sue regole e i suoi deliberati. Seguì la rivolta delle grandi firme. Spadolini, pur uscendo con in tasca un cospicuo contratto di collaborazione con la testata, lo lasciò sempre nel cassetto. Gianni Agnelli gli aprì subito le porte de “La Stampa”, cui collaborò fino alla scomparsa, nel 1994. E l’offrì anche a Indro quando sbatté la porta del “Corriere”, l’anno dopo. Per poco tempo, Montanelli scrisse per il quotidiano della Fiat. Ma la sua vocazione era impiantare e dirigere una propria testata. Iniziò allora l’avventura del “Giornale nuovo”, per tutti divenuto ben presto “Il Giornale di Montanelli”, con esigui capitali di pochi amici. Poi arrivò il cavaliere azzurro, un imprenditore emergente di nome Silvio Berlusconi che mise i capitali necessari al decollo, riservandosi l’unico ruolo che, albertinianamente, Indro gli riconosceva: incassare gli utili a fine anno. L’avventura durò fino al 1993 quando Berlusconi ebbe la sortita improvvida, agli occhi di Montanelli, di fare quella che fu chiamata con linguaggio calcistico la “discesa in campo”. Allora giunse puntuale il “non possumus” di Montanelli. Indro non avrebbe mai fatto il portavoce di un editore politico; non sarebbe mai stato col fiato della proprietà sul collo. Ognuno doveva fare il suo mestiere. Sbatté nuovamente la porta e iniziò una nuova avventura, a più di ottant’anni, grazie ai capitali procurati da Mediobanca di Cuccia: “La Voce”.

Come accade spesso agli anziani, Indro tornava agli amori giovanili, con quel richiamo alla “Voce” di Prezzolini che considerava un modello insuperato di giornalismo politico indipendente. Ma era un’altra Italia, quella che precede la Grande Guerra, e poi Prezzolini non aveva fatto un quotidiano, ma un settimanale in concorrenza con un altro periodico fiorentino, “Il Marzocco”. “La Voce” fu una testata vivace, ma destinata al fallimento. Non era possibile ricavare un nucleo adeguato di lettori fra la destra del “Giornale” e la sinistra di “Repubblica”. Non eravamo ancora entrati nell’era post ideologica. La pubblicità, dopo gli esordi entusiastici, latitava. Il giornalismo libero e indipendente che era stato la bussola di Indro era morto. Rientrò nelle file del “Corriere”, curando in modo impareggiabile il dialogo con i lettori. Come solo lui sapeva fare. Finché, apertosi il nuovo secolo, chiuse gli occhi, ultimo testimone di una grande storia da tempo conclusa. Il XX secolo era proprio finito.

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