Buon compleanno, Italia! 17 marzo 1861 – 17 marzo 2021

Si è scritto e si legge ancora nei vecchi manuali di storia che in occasione della proclamazione del Regno d’Italia da parte del primo parlamento nazionale, Massimo D’Azeglio avrebbe pronunciato la fatidica frase: “Fatta l’Italia ora dobbiamo fare gli Italiani”. In realtà, pare proprio che non l’abbia mai pronunciata e che si tratti piuttosto di una rielaborazione e interpretazione, libera e non conforme, di quanto scrisse ne I miei ricordi (1867). Io stesso ne dubito assai, perché D’Azeglio, con queste parole avrebbe dato ragione a Metternich, il cancelliere austriaco travolto dal ’48, che aveva definito l’Italia una pura “espressione geografica”.

Il tema è grosso e grave, oltre che assai complesso. Investe in pieno la questione se l’Italia fosse nazione prima di costituirsi in Stato, ovvero, come preferiva pensare Benedetto Croce, lo Stato unitario ha avuto un ruolo decisivo nel formare la nazione italiana.

In questa breve riflessione in occasione dei 160 anni della nostra unità nazionale non possiamo certo addentrarci in un tema tanto arduo. Posso solo fare cenno che di sicuro c’era una italianità delle élite. Gli studi di storia della lingua ci dicono che su poco più di 21 milioni di abitanti del Regno d’Italia del 1861, che salgono a 26 milioni e mezzo dopo l’annessione dello Stato pontificio, 600 mila persone parlavano e scrivevano in italiano. Poche, dunque, appartenenti alle classi colte, ma che avevano una lingua comune, quel volgare che Dante aveva fatto divenire lingua della patria, e una letteratura. Se questi sono elementi fondanti di una identità nazionale e, a mio avviso, lo sono, la nazione italiana che si unisce politicamente nel 1861 e proclama se stessa come Stato indipendente era vecchia di molti secoli.

Certo ha un grave limite. È una nazione che si costruisce attorno a una lingua e a una letteratura. In questo nucleo fondante si è integrata una visione della nazione nel senso politico del termine che è frutto dell’illuminismo e della grande rivoluzione. L’idea romantica di nazione, potente vettore storico della prima metà del XIX secolo, si cala dunque nella realtà italiana nelle radici della lingua e della letteratura nazionali. Queste, di per sé, non erano sufficienti a produrre l’unità nazionale, ma lo erano come crogiolo identitario.

Semplificando, una élite, a fronte di una massa che non sa leggere e scrivere e che parla un dialetto locale spesso del tutto incomprensibile al di fuori del territorio ove viene usato, trova le condizioni, sotto la guida di un illuminato condottiero, Camillo Benso conte di Cavour, per realizzare l’unita. Non lo fa “contro” la massa, ma lo fa “senza” la massa degli abitanti della penisola, che debbono essere convinti della bontà della realizzazione e divenirne partecipi.

Se non vogliamo usare l’espressione che D’Azeglio non ha mai usato, ma che solleva una obiettiva, grande questione, diciamo che dopo il 1861 e ancor più dopo il 1870, quando fu annesso lo Stato Pontificio e trasferita la capitale a Roma, è necessario procedere alla nazionalizzazione delle masse. Non entro nel merito di quali siano stati gli strumenti per ottenere lo scopo. Comunque tanti, fra quelli voluti e ricercati dal ceto politico e quelli spontanei, della società civile. Fra i primi, la scuola, la leva obbligatoria, l’allargamento della base elettorale. Fra i secondi, le grandi migrazioni dal Mezzogiorno al Nord del boom economico degli anni ’50 del passato secolo. Di fatto, ci siamo portati dietro molto a lungo questa drammatica frattura, ancora non risolta.

A questa se ne aggiungeva una seconda, gravissima. Gli italiani, come gli irlandesi e i polacchi, hanno e soprattutto avevano una identità religiosa forte, fusa con la dimensione nazionale. Tanto forte che per irlandesi e polacchi l’essere cattolici era leva di distinzione e di contrapposizione contro le potenze dominanti: l’Inghilterra e la Prussia. Ma questa solida alleanza identitaria fra l’essere cattolici e l’essere italiani, ossia rivendicanti l’unità e l’indipendenza della patria, era per noi conflittuale. La Chiesa romana nei secoli era stata di ostacolo alla conquista dell’unità nazionale: era stata sufficientemente forte per impedirla, ma non tanto forte da realizzarla in prima persona.

La questione si ripropose, prima e dopo il 17 marzo 1861 e, soprattutto, dopo il 20 settembre 1870. Il Pontefice e la gerarchia ecclesiastica colpirono con la scomunica coloro che si erano macchiati del torto di avere tolto il potere temporale al Papa. I fedeli in Chiesa non ricevevano i sacramenti se si dichiaravano patrioti e favorevoli all’unità d’Italia. Insomma, l’essere cattolici e l’essere patrioti era incompatibile agli occhi della gerarchia ecclesiastica. E questo rendeva ancor più complessa l’opera di quella élite che doveva affrontare la questione cruciale della nazionalizzazione delle masse.

Poi c’era una terza frattura, nota come questione meridionale, la cui consapevolezza cominciò a crescere con la stagione di Firenze capitale (1865-1871). La civiltà della penisola, per usare un’espressione cara a Metternich, aveva avuto nello Stato Pontificio un secolare spartiacque territoriale. A nord di esso, gli italiani avevano partecipato della civiltà comunale, che aveva sconvolto il dominio feudale, propiziando la nascita di un nuovo ceto, la borghesia imprenditoriale e commerciale e una nuova economia di mercato. A sud, il feudalesimo era rimasto intatto anche quando fu ufficialmente abolito, in Sicilia solo nel 1812. Il Mezzogiorno d’Italia e lo Stato Pontificio erano quindi rimasti lontani dallo sviluppo rivoluzionario della civiltà europea che col comune aveva anticipato la modernità. I ceti dominanti erano feudatari con mentalità da rentier, pronti ad adattarsi ad ogni cambiamento di regime politico pur di mantenere il sistema di sfruttamento della plebe rurale soggiogata, che garantiva le loro agiate vite nelle città meridionali.

Questo è lo spirito con cui i ceti dominanti meridionali – quelli che sapevano leggere e scrivere e facevano parte dei 600 mila italiani di cui dicevo – hanno accolto il regime dei Savoia. Tomasi di Lampedusa fa dire a Tancredi, il nipote del principe di Salina, il Gattopardo (1958), “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Che era esattamente l’opposto di ciò che Machiavelli consigliava al Principe che volesse unificare l’Italia: cambiare la sostanza del vecchio ordine, mantenendo le sembianze della continuità nella forma.

Una terza grande frattura, dunque, che non aveva eguali in altre nazioni europee di recente o remota riunificazione, come Francia, Inghilterra o Germania.  Di certo 160 anni non bastano a risolvere queste questioni colossali. Ma ci abbiamo provato e dobbiamo continuare a provarci. Abbiamo fatto tanta strada e altra ne faremo. Buon compleanno, Italia!

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