L’Italia e la Fiat di Gianni Agnelli. A cento anni dalla nascita

La singolarità della famiglia Agnelli come imprenditori manifatturieri risiede in due aspetti del tutto originali e anomali nel panorama italiano. Nell’Italia della prima industrializzazione, l’industriale era quasi sempre un ex artigiano che aveva saputo far crescere la propria attività. Fra il mondo della proprietà fondiaria e quello della imprenditoria nel settore manifatturiero vigeva una netta separatezza, che discendeva dalle gerarchie sociali del tempo. Il proprietario fondiario era classe dirigente, era élite sociale e politica. L’artigiano/imprenditore era classe media. Se andiamo a vedere chi sedeva in Parlamento nell’Italia liberale troviamo conferma. E quando non troviamo il proprietario fondiario in prima persona, incontriamo un vasto ceto di avvocati che ne fungevano da portavoce.

Gli Agnelli, e il nonno di Gianni, Giovanni, erano l’eccezione che conferma la regola. Il patriarca era un grande proprietario fondiario che aveva convertito i capitali accumulati in impresa industriale, fondando, assieme ad altri possidenti torinesi, la Fabbrica Italiana Automobili Torino (FIAT) nel 1899. Diverso dai grandi possidenti toscani, per fare un esempio, che investivano piuttosto in banca e finanza.

Il secondo aspetto di originalità deriva dal primo. Provenendo da famiglia di grandi proprietari e non da artigiani che si erano fatti imprenditori, Gianni aveva partecipato dell’educazione cosmopolita che apparteneva al ceto superiore, l’alta borghesia e l’aristocrazia, e come tale si era formato. Nel 1938, a soli diciassette anni, il nonno l’aveva mandato a fare un lungo viaggio negli Stati Uniti, con tappa anche a Detroit, naturalmente, capitale dell’industria automobilistica, perché Gianni, il più promettente dei sette figli di Edoardo, morto nel 1934, e di Virginia Bourbon Del Monte, conoscesse il mondo e si formasse a contatto con l’élite che ne avrebbe determinato l’avvenire.

Quel viaggio fu decisivo nella sua formazione. Presero avvio i suoi contatti con i grandi d’America e soprattutto assimilò la sproporzione fra le dimensioni degli Stati Uniti e il provincialismo delle nazioni europee. Immagino i pensieri di nonno e nipote quando i dittatori europei pensarono di scendere in guerra contro gli Stati Uniti. Non si rendevano conto di quale potenza andavano a sfidare e si prepararono la fossa.

Gianni era figlio di un’altra Italia, rispetto a quella dominante, e questo gli permise di coltivare una visione globale che l’imprenditore medio italiano non aveva. Quando il mercato comune europeo, creato con i Trattati di Roma del 1957, arrivò a completa applicazione, a metà degli anni ’60, Gianni fu il primo a intuire che la Fiat doveva propiziare fusioni e acquisizioni nel mercato europeo. Pensò d’incorporare la Citroën, ma l’operazione non andò in porto per il nazionalismo francese. L’operazione Stellantis, completata da Mike Manley nel gennaio scorso dopo la precoce morte di Marchionne, Gianni l’aveva pensata più di cinquant’anni fa. Nessuno l’ha ricordato. Nella convinzione che la Fiat non potesse più operare da sola poco prima di morire Agnelli tornò sul tema. Tentò la carta della fusione con la General Motor che non andò in porto. Meglio così, perché probabilmente la Fiat sarebbe scomparsa nella pancia della più grande fabbrica di automobili del mondo. Ma Marchionne si mise sul solco di Agnelli propiziando la fusione con la Chrysler. Insomma, se la Fiat è sopravvissuta, sia pure in un contesto più ampio, lo si deve alla visione internazionale sua e dei manager suoi eredi fra i quali ricordiamo anche il nipote di Gianni, John Elkan.

Più controversa fu la sua gestione come presidente Confindustria, fra il 1974 e il 1976. Nel gennaio 1975 Agnelli sottoscrisse con Lama, segretario generale della CGIL, l’accordo che istituiva per le aziende associate di Confindustria il punto unico di scala mobile con cadenza trimestrale. Nonostante reticenze e avversioni, l’accordo fu recepito anche dal sindacato dell’industria pubblica, Intersind, e poi esteso per legge a tutti i lavoratori dipendenti, pubblici e privati. L’accordo dava garanzia di copertura rapida e totale al deprezzamento da inflazione di salari e stipendi.

Era stato pensato per far ritornare la pace sociale nelle fabbriche, abbassando la conflittualità permanente che affliggeva il mondo della produzione dall’autunno caldo del ’69. L’accordo fu molto criticato. In effetti aveva molti effetti negativi, che si producevano a cascata. Voleva fronteggiare l’inflazione indotta dai maggiori costi energetici e delle materie prime, ma con gli scatti automatici ne produceva l’accelerazione interna. Inoltre, la sua inevitabile estensione ai dipendenti pubblici moltiplicava il costo del lavoro anche in questo settore, incrementando il debito pubblico.

Sono obiezioni fondate, ma nel momento in cui l’accordo fu sottoscritto le organizzazioni terroristiche, Brigate rosse in testa, stavano cercando di penetrare nel mondo del lavoro. A mio avviso, non ci riuscirono anche in virtù dell’accordo Lama Agnelli che aveva garantito il mondo del lavoro. Nove anni più tardi, il 14 febbraio 1984, per frenare l’inflazione Craxi ridimensionò per decreto la dinamica incontrollata, a piè di lista, degli scatti di scala mobile. Prefissò i punti di scala mobile a sei l’anno su suggerimento di Ezio Tarantelli che pagò con la vita questa soluzione di successo, assassinato dalle Brigate rosse. Ciò conferma che il tema era cruciale e che in quel momento storico l’accordo aveva fronteggiato un pericolo più grande per il paese.

La ripresa della Fiat e di tutta l’industria italiana iniziò a partire dall’ottobre 1980, con la cosiddetta marcia dei quarantamila. I quadri Fiat scesero in piazza contro il sindacato e in difesa dell’azienda nella vertenza sui 14.500 licenziamenti operati dalla Fiat per ristrutturare l’azienda.

Anche questo passaggio cruciale si cala negli effetti dell’accordo Lama Agnelli del 1975, come caso storico di eterogenesi dei fini. Il punto unico di scala mobile produceva l’effetto correlato di garantire la completa protezione dall’inflazione, qualsiasi essa fosse, ai livelli salariali più bassi. Ma proteggeva sempre meno salari e stipendi più alti sui quali gravava il crescente drenaggio fiscale. Quindi, quadri intermedi e dirigenti erano penalizzati dall’appiattimento retributivo indotto dalla scala mobile.

Inoltre, dal gennaio 1979 era diventato operativo il Sistema monetario europeo (SME) che vincolava le parità di cambio monetario dei paesi della CEE. Quindi la libera svalutazione competitiva della lira non era più possibile, almeno nei termini precedenti, e le aziende non potevano più scaricare sui prezzi senza limite il rialzo del costo del lavoro. Per la prima volta da più di dieci anni il sindacato abbozzò. La Fiat aveva vinto.

Poi, simbolicamente il riscatto Fiat venne dall’esposizione a Cape Canaveral, nel gennaio 1983, della Fiat Uno, una fra le auto più vendute della storia, ideata dal direttore di Fiat auto, Vittorio Ghidella. Come era accaduto con Vittorio Valletta e come accadeva di nuovo con Cesare Romiti, la Fiat di Gianni Agnelli tornava in piedi dopo anni difficili grazie all’inventiva di un grande manager. Il che dimostra che Gianni aveva imparato dal nonno l’arte di scegliersi ottimi direttori, determinanti per il successo dell’azienda. Anche questa è una qualità che gli va riconosciuta.

Quando chiuse gli occhi nella sua Vilar Perosa, nel gennaio 2003, l’Italia motorizzata dalla Fiat era un lontano ricordo. La Fiat doveva raccogliere la sfida globale delle grandi corporazioni giapponesi e sud coreane dell’auto, internazionalizzandosi.  Gianni, da cittadino del mondo, l’aveva ben compreso. Non ha fatto a tempo a vedere né Fiat Chrysler né Stellantis, ma avrebbe pensato che gli allievi avevano imparato dal maestro.

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