Collodi e il suo Pinocchio. A 130 anni dalla morte

Il 26 ottobre 1890 moriva improvvisamente, per un fatale aneurisma, Carlo Lorenzini, detto Collodi, a 64 anni non compiuti. Nella sua professione di giornalista, di critico teatrale, di scrittore aveva lasciato parecchie opere, tra romanzi, manualetti scolastici, saggi e articoli di costume. Aveva fondato riviste satiriche come Il Lampione, teatrali tipo La Scaramuccia, e collaborato ad altre appartenenti ai due generi.

Nonostante la cura profusa in quasi tutta la sua produzione, la fama di cui gode è pressoché unicamente legata a una storia capace di far innamorare di sé chiunque vi si avvicini. Se si deve assegnare a qualcosa la qualifica di patrimonio dell’umanità, non c’è dubbio che la meriti Pinocchio. Il libro e il personaggio. Quella Storia di un burattino l’autore volle presentarla come una “bambinata” quando la mandò per pubblicarla nel 1881; la parola può sembrare un termine riduttivo solo a chi prenda sottogamba l’infanzia, cioè un periodo fondamentale della vita umana, ove si raccolgono impressioni e impulsi destinati a durare lungo l’arco della propria esistenza. Come nel libro amato da generazioni di ragazzi, ove si descrivono le avventure d’un soggetto di legno, fuori dal mondo normale, anche perché il suo si popolava di grilli gatti volpi cani parlanti, di fate turchine e di pescecani abitabili.

Qualcuno lo dice il libro più letto e tradotto dopo la Bibbia, è certo che lo conoscono tutti, e tutti credono di poterne dire qualche cosa, dalle semplici descrizioni e riassunto della storia alle sofisticate indagini sui retroterra nascosti tra le righe di quelle pagine. Tanto che Pinocchio viene sepolto sotto una fitta coltre d’interpretazioni e d’illustrazioni, tra cui bisogna pur scegliere.

Alcuni ricercatori hanno visto il libro permeato d’una specie di ‘terrorismo pedagogico’, e connesso ad un’‘epica della fame’ e della sopravvivenza, come espressioni d’uno spirito perfettamente coerente con la difficile situazione economico sociale dell’Europa di fine Ottocento. Qualche osservatore lo definisce un libro duro, anzi ‘spietato’, nel dipingere una società in sostanza cattiva ed ostile, governata da istituzioni inadeguate.

Inutile dire che è stata proposta un’alternativa a cotali fosche prospettive (oltre che a una lettura del libro in chiave risorgimentale): è cristiana e dovuta al cardinal Biffi, richiamante ogni ‘pinocchiologo’ degno di tal qualifica a considerare l’‘enigma’ sotteso al mirabolante racconto, assimilabile alla parabola evangelica del ritorno a un padre dapprima rifiutato, in nome della speranza qui incarnata dalla presenza della Fata turchina; e integrato nel significato dell’esistenza, nel mistero della vita e della ricerca della propria identità.

Difficile dirsi interamente d’accordo con la detta interpretazione; più fruttuoso appare occuparsi dei ripetuti tentativi d’identificare le locations del libro, dall’osteria “Del gambero Rosso” all’isola “Delle api industriose”, perché in sostanza rinviano all’invidiabile capacità del Collodi di mettere alla base della fantasia dispiegata nel Pinocchio luoghi conosciuti, reali situazioni e questioni d’attualità.

Si pensi alla possibilità che ispiratrice della Fata turchina sia Anna Kuliscioff, la famosa agitatrice socialista, da cui il Lorenzini rimase colpito assistendo come giornalista al processo celebrato a Firenze nel 1880; o al riferimento alle teorie frenologiche del Gall attraverso l’ironica deformazione di quel nome compiuta dal direttore del circo illustrante lo spettacolo del burattino trasformato in asino danzante (“seguendo il sistema di Galles, trovai nel suo cranio una piccola cartilagine ossea”); o a quello “scimmione della razza dei gorilla…rispettabile per la sua grave età” che condanna il burattino ingiustamente, e che rinvia al tema detto della ‘scimmietà’, in pratica interessante tutta la cultura europea, dopo la pubblicazione della darwiniana Origine dell’uomo. Allora s’innesca un dibattito che si fa rovente allorché entrano in campo due celebri scienziati stranieri ma operanti a Firenze: Moritz Schiff, docente nell’Istituto di studi superiori fiorentino di fisiologia e d’anatomia comparata, e Aleksandr Alexandrovich Herzen, suo assistente. Una conferenza tenuta alla Specola da quest’ultimo il 21 marzo del 1869 s’intitolava Sulla parentela tra l’uomo e la scimmia e provocò, dopo che il giornale La Nazione ne aveva dato notizia, una stizzita lettera aperta di Raffaello Lambruschini pubblicata sulle stesse colonne, e alcuni interventi ironici e ovviamente critici di Nicolò Tommaseo.

Siamo nell’ambito pedagogico, confermando quanto è stato ritenuto proprio del libro, e il più significativo di esso, attribuendo al Lorenzini un posto d’onore nella galleria degl’illustri formatori delle coscienze giovanili, senza distinzione di rango, anzi attribuendo a lui e a Edmondo de Amicis, il cui famoso Cuore è pubblicato cinque anni dopo, nel 1886, l’invenzione della narrativa per ragazzi, un genere letterario completamente nuovo, diretto a ricoprire un ruolo fondamentale, un’integrazione necessaria ai progetti educativi della recentemente unita Nazione italiana, galassia d’incerti confini, allora tutti da stabilire.

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