Oltre il muro. Trent’anni dopo

Ci sono date nella storia che assumono un valore epocale. Fra le date spartiacque del XX secolo metterei il 9 novembre 1989, la caduta, anzi, più esattamente, lo smantellamento del muro di Berlino, seguito alla sua apertura. La lettura dell’evento da parte dei contemporanei fu accompagnata da entusiasmo. Non solo l’opinione pubblica tedesca e, ovviamente, i berlinesi vissero l’evento come la liberazione da un lungo incubo, ma tutti gli europei, ad est come ad ovest di quella che fino ad allora era stata chiamata la cortina di ferro, ritennero che fosse il segno di una nuova alba. A questa percezione collettiva si associarono illustri scienziati sociali che, traendo spunto dal dato inoppugnabile che se finisce una guerra, calda o fredda che sia, c’è sempre un vincitore, teorizzarono la fine della storia. Gli Stati Uniti avevano vinto e quindi il modello americano di democrazia liberale era destinato a diffondersi e a stabilizzarsi nel mondo come approdo definitivo e salvifico (Francis Fukuyama, The end of history and the last man, 1992). La tesi del politologo californiano riprendeva in modo assertivo e definitivo quanto lo stesso Fukuyama aveva espresso in modo assai più problematico e prudente nello stesso 1989.

Le letture dell’origine di questa linea interpretativa, calate nel contesto americano, sono complesse. Per esempio, vi si può ravvisare il riscatto dall’umiliazione subita dagli Stati Uniti nel 1975 con la caduta di Saigon sotto la pressione delle truppe nord vietnamite. Gli Stati Uniti si erano disimpegnati dal 1973, ma l’opinione pubblica americana aveva vissuto la sconfitta militare, ma in realtà soprattutto politica, la prima della storia degli Stati Uniti, come un rigetto del “modello americano”. Il Viet Nam era divenuto uno psicodramma collettivo ancor prima che un fallimento di politica estera. Ne aveva fatto le spese il presidente Nixon, costretto alle dimissioni per sfuggire ad un impeachment ove la vicenda dello spionaggio elettorale in casa democratica, del quale era stato regista (Watergate), era solo l’epifenomeno di una complessa crisi identitaria.

In questa prospettiva il 1989 diveniva il riscatto del 1975. Finalmente “the american way of life” era stato riposto sul podio del miglior sistema possibile. La politologia proponeva all’opinione pubblica la riemersione rivisitata della dottrina del “destino manifesto” degli Stati Uniti, coerente con l’”eccezionalità” che ne aveva accompagnato la storia, dai Pilgrim fathers a Franklin D. Roosevelt.

Peccato che il libro di Fukuyama fosse pubblicato negli Stati Uniti proprio nell’anno in cui il presidente “vincitore” della guerra fredda, George H. W. Bush sr., perdeva le elezioni per il secondo mandato presidenziale contro l’oscuro candidato democratico Bill Clinton. Era evidente che, agli occhi dell’opinione pubblica americana, contavano di più gli effetti della crisi economica e della crescente disoccupazione che i fasti di una politica estera che aveva sancito l’apparente prevalere nel mondo dell’”american way of life”.

In realtà, la storia, dopo la caduta del muro, ha assunto un percorso del tutto divergente dagli scenari proposti dai predittori del trionfo globale della democrazia di modello americano. Il combinato disposto di due eventi, la dissoluzione dell’Unione Sovietica e del suo connesso ruolo di stato guida del mondo comunista, oltre che della sua tenuta, e la diffusione planetaria delle reti informatiche, prima esclusivo appannaggio dell’esercito degli Stati Uniti, ha accelerato la globalizzazione. Questo colossale fenomeno di trasformazione del mondo, che fa sentire tutti confinanti con tutti, ha stimolato due fenomeni collegati: i processi migratori e i processi identitari. Il primo fenomeno riflette la pressione del sud del mondo, più povero e in espansione demografica, verso il nord, più ricco e in declino demografico. Il secondo fenomeno in parte convalida, a contrario, quanto teorizzato da Fukuyama. Le “identità”, soprattutto religiose, ma anche semplicemente etniche e nazionali che si sentono minacciate dalla traenza del modello occidentale, oppongono una resistenza estrema e passano al contrattacco alimentando anche il fenomeno terroristico.

Inoltre, la superpotenza solitaria vincitrice della guerra fredda che nell’età clintoniana si era assunta il ruolo di poliziotto del mondo come garante di ultima istanza in qualsivoglia area di crisi ha presto dovuto riscontrare i limiti di questa vocazione. La rapida emersione di nuove superpotenze, in primis la Cina e l’India, soprattutto la prima a vocazione globale, e, nel XXI secolo, la ripresa della politica di potenza della Federazione Russa, hanno di fatto imposto una logica multipolare alle relazioni internazionali, escludendo che chicchessia possa svolgere il ruolo di poliziotto del mondo in stato di vuoto di potenza.

Tutto quanto è accaduto era nelle premesse. L’Unione Sovietica era in grave crisi dalla morte di Brèžnev quando agli inizi degli anni ’80 il prezzo del petrolio iniziò a calare sui mercati mondiali, riducendo gli introiti dell’erario sovietico e la possibilità di cedere petrolio ai paesi satelliti per garantirne la tenuta politica. La ripresa della competizione tecnologico/militare voluta dal presidente imperiale Reagan non era più sostenibile da Mosca. Internet già esisteva prima della caduta del muro, anche se la sua crescita e diffusione esponenziale fu garantita negli anni ’90 dalla diffusione dei pc. Sempre negli anni ’80, la Cina aveva imboccato la via della crescita a ritmi forsennati dalla liberalizzazione delle attività economiche operata da Deng Xiaoping con la cosiddetta “economia socialista di mercato”.

Con la caduta del muro di Berlino, dunque, non finiva la storia, ma una storia, quella dei postumi della seconda guerra mondiale, e ne emergeva un’altra che già c’era nelle sue potenti premesse. Per questo il muro si è sbriciolato, quasi senza colpo ferire. Perché apparteneva a un’altra storia, quella finita. E nessuno poteva dire che la nuova storia sarebbe stata migliore della vecchia.

 

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